Capitolo 39

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«Fanno male, fanno male le parole sopratutto quando sono troppo preda, in quei giorni dove piangere è assoluto...»

Cit. Non Devi Perdermi.
A. Amoroso

[Pov's Alan]

Mi appiattivo contro il muro della cabina, raggomitolato in posizione fetale, con il volto riverso sulle ginocchia perché anche guardarla, scrutare il suo corpo, immergermi nella trama blu dei suoi occhi mi facevano sentire un traditore.

Uno schifoso traditore.

Anche se mi tenevo a una certa distanza di sicurezza da lei, non mi sentivo protetto e non credevo di essere immune al suo fascino.
Rialzai il volto solo per fissare il pavimento grigio metallizzato, rimasto paurosamente in equilibrio, dopo il calo di tensione, tra un piano e un altro poi notando che si spostava per farvi entrare il suo corpo, rannicchiato dall'altra parte nel mio campo visivo lo incassai nelle scapole.

«Credi verranno a liberarci presto?» ebbi il coraggio di domandarle facendo appello alle poche forze che mi restavano di quella giornata... movimentata?

In un certo senso, lo era stata sotto ogni punto di vista. Prima la discussione con Austin, poi il ritorno di corsa al college, intervallato dalla mia proposta a Sofia di fidanzarci in segreto con lei che aveva accettato qualsiasi compromesso per stare al mio fianco, persino mentire.
Dickens che mi aveva beccato e l'incontro con Elly Hèrman, la ragazza che credevo di aver sepolto nel mio lontano passato e che era tornata. Ora questo, bloccato in ascensore senza possibilità di fuga. Di sicuro la mia esistenza oltre ad essere dolorosa, era anche interessante.. a chi non sarebbe piaciuto restare intrappolato, nella cabina dell'elevatore, con una donna avvenente e con un fisico statuario?

A tutti, eccetto me.
Mi sarei accontentato persino che il pavimento si aprisse a mo di botola, come nei film di spionaggio e io ci precipitassi all'interno.
Bastava che ci fosse una minima possibilità di salvarmi da Elly a qualsiasi costo, prima che il mio corpo venisse sfiorato dall'idea malsana di baciarla. Baciarla, quello proprio non mi saltava in testa per nessuna ragione al mondo; dopo quello che lei mi aveva fatto, dopo che le avevo consegnato il mio cuore senza riserve, accecato dalla sicurezza che lei lo avrebbe custodito senza graffiarlo, e alla fine me lo ero ritrovato tra le mani morente.

Non potevo perdonarla.

Qualche volta ci si liberava di un peso quando ci si chiariva e si per perdonava, ma talvolta il dolore era inerstitpabile come il cancro; lo stesso nemico infallibile che stava consumando mia madre.

«Speriamo.» mi rispose.
Respirai profondamente.
La ristrettezza del luogo iniziava a farmi un brutto effetto. Da piccolo avevo sempre sofferto di claustrofobia, era diventata parte integrante di me; odiavo i luoghi troppo chiusi con le mura troppo alte, restare troppo tempo nei posti frequentati dalla marmaglia perché mi provocava una fortissima emicrania, come per esempio quando i miei amici passavano le loro serate nei rave o nelle discoteche, in realtà ne avevo davvero pochi, nessuno voleva stringere amicizia con un taciturno come me, solo Enric, era come un fratello per me.

Man mano, con l'avanzare delle settimane, dei mesi, degli anni il problema peggiorò notevolmente e oltre all'emicrania si aggiunsero spasmi involontari, sudorazione, tachicardia e difficoltà respiratoria. Il medico di base consigliò a mia madre di sottopormi a una visita medica completa e di vedere uno strizzacervelli per discutere del problema familiare.

Sei la mia chiave di violino (Vol.1) [IN REVISIONE]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora