9. (Non editato)

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Il Teatro-Museo Dalí era una delle cose più stravaganti che Cat avesse mai visto. La forma dell'edificio ricordava vagamente quella di un castello, tranne per il fatto che il colore delle mura fosse di un rosso bordeaux acceso e che su queste vi fossero attaccate tante rosette di pane. In cima alla costruzione, invece, si potevano ammirare delle uova giganti disposte in fila e intervallate da statuine dorate con le braccia alzate.

«L'uovo era una delle immagini tipiche di cui si serviva Dalí, in quanto egli associava a questo il periodo prenatale e intrauterino. Per lui simboleggia la sperrranza e l'amore» spiegò la guida, una signora bruna di mezz'età con un calcato accento catalano.

«L'edificio un tempo era un teatro, fu distrutto dalle fiamme durante la Guerra Civile Spagnola e fu scelto in seguito da Dalì per ospitarrre la più grande collezione delle sue opere. L'artista si occupò direttamente della sua costruzione e convertì ogni dettaglio de el Museo in un'opera de arte. Oltre ai dipinti, il museo contiene sculture, collage e marchingegni meccanici.»

Nel Cortile c'era una barca rovesciata con delle grosse gocce azzurre ̶ forse di gomma ̶ che pendevano verso il basso; molti dei ragazzi pensarono subito che si trattasse di un'opera dal significato ambiguo.

«Sembrano dei preservativi usati» commentò infatti Adriano con un sogghigno, mentre la guida si prodigava per mettere a tacere le battute maliziose del resto della scolaresca. Cat gli lanciò un'occhiataccia, ottenendo in cambio un'alzata di spalle.

Quella era la loro prima vera interazione da quando erano scesi dal pullman.

Si erano seduti vicini e avevano fatto finta di trovare piacevole la presenza dell'altro, sebbene non si fossero scambiati una singola parola. Il bastardo si era divertito a poggiare il capo sulla sua spalla e Cat si era chiesta se lui avesse anche solo una vaga idea di quanto le facesse male. Vederlo ripetere gli stessi gesti di quando era vivo, di quando bruciavano insieme, con la medesima emotività di una macchina, era stato un supplizio.

Stava tenendo duro, eppure una voce dentro di lei aveva iniziato a sibilarle un'amara verità: a forza di reprimerti diventerai una macchina come lui.

Liberati da queste catene, reagisci, smettila di mostrarti più gelida di lui e giocare a chi prova meno emozioni. Dimostragli che non siete uguali, dimostragli che tu puoi davvero batterlo. Prendilo per il colletto di quel maledetto giubbino di pelle e sbattilo sulla prima parete che vedi, urlagli in faccia che non deve più toccarti e che è finita; urlagli che lo odi perché non riesci a odiarlo e riempilo di schiaffi finché non sputa fuori il suo problema.

Non voleva darle retta, per questo le aveva abbassato il volume.

Quella voce non conosceva Adriano, altrimenti avrebbe saputo che quel piano non avrebbe funzionato.

Riusciva a immaginare alla perfezione ciò che sarebbe accaduto, se avesse seguito il suo consiglio.

Se lo vedeva già, Adriano: intrappolato tra la parete e il suo corpo, con quella faccia da stronzo, che subiva i suoi colpi in silenzio, come se per lui fossero un solletico. E nel mentre la infilzava coi suoi occhi ghiacciati facendole desiderare soltanto di cavarglieli dalle orbite per giocarci a ping pong.

Fanculo, va' via dai miei pensieri.

Aveva intenzione di immortalare ogni opera di quel museo per tenersi occupata, non avrebbe lasciato che quel coglione infestasse la sua mente un minuto di più.

Impegnata a scattare fotografie ai vari dipinti, non si era accorta che la sua classe era passata avanti insieme alla guida, così si affrettò a raggiungere i suoi compagni.

Ira. La Sindrome di Didone (Vol.3)Where stories live. Discover now