WILD.

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Iniziai a frequentarlo all'età di sedici anni, al terzo anno del liceo. Seguivo le lezioni all'istituto industriale che si trova poco più in là di Dadaepo, nell'entroterra: nel primo pomeriggio dopo pranzo andavo spesso a fare una camminata nei pressi dell'osservatorio di Amisan, correvo a piedi nudi sulla spiaggia anche d'inverno: la sabbia fredda mi rinvigoriva.

Avevo molti amici, ma di nessuno di loro mi sentivo di professare come sincero. Era la mania adolescenziale di avere tante conoscenze, essere popolare e con molto seguito. È contradditorio: gli introversi non amano vivere sulla breccia della notorietà, spesso essere al centro dell'attenzione li infastidisce, e per ciò di cose io così mentivo a me stesso. Mi piaceva, facevo finta che quello fosse ciò che davvero volessi. Ad oggi, a venticinque anni, ho invertito del tutto il mio atteggiamento: gli amici veri posso contarli sulle punte delle dita (noi esseri umani ne abbiamo solo dieci), ma nemmeno arrivo a trovarne tanti da riempire una mano. Avevo creato carnefice un mondo falso, sotto tutti gli aspetti costruito; ovunque camminassi, mi rendevo gradualmente conto fosse tutto immaginato. Era la normalità – me la imponevo –, contrariamente alla conclusione che maturai più tardi: più mi piegassi a quelli schemi, più ne fuoriuscivo; e tutto ciò in cui vivevo era solo una falsa costruzione. Faceva star bene gli altri – per lo meno chi mi vedeva e non conosceva –, ma non riusciva a far vivere bene me stesso.

Tuttavia, capii che non faceva stare così bene nemmeno chi mi stesse attorno. Non mi sopportavano; mi ritenevano pesante, invadente, fuori dagli schemi solo perché dicessi ciò che pensavo, e non trovavo mai modo per lenire tutto quel dolore accumulato: semplicemente lo nascondevo sotto ad un sorriso, forte della volontà di ignorare le voci di coloro che mi davano del pazzo, mi giudicavano, mi parlavano male alle spalle e mi guardavano storto senza nemmeno un apparente motivo.

Gli facevo solamente pena: io, con le mie canzoni, il mio mp3 che camminavo lungo la via per il faro. Spesso li vedevo tutti insieme, ero io il problema: quando non c'ero, semplicemente si divertivano, e mi invitavano solo qualche volta per ripulirsi la coscienza, anche lì costernato dai sorrisetti falsi ed eccessivi, che mi rimanevano stantii. Appena voltavo le spalle, sentivo bisbigliare: sarebbe stato più onesto, più concreto e sincero sentirmi dire che con loro non avrei più dovuto aver niente a che fare.

Io, col mio carattere falsamente esuberante. Non ero cattivo, pensavo solo di far bene; e la mia onestà, quella che più fra tutte le qualità dell'essere turba una società di bigotti. La cattiveria, quella vera, l'ho conosciuta proprio in quegli anni, mi sono sentito io stesso invadente, io stesso quello sbagliato senza aver un minimo di ritegno per me: devo esser più blando col me del passato; con quello del presente lo sono fin troppo, ma sicuramente vivo meglio.

Ho fatto il gentile, finché – era il loro modo di operare – non mi sono venuti a dire, ovviamente da parte di terzi – che con me non avrebbero più avuto niente di cui parlare. Ma prima di quella dolorosa, e aggiungerei sana, liberazione schiaffata sulla bocca, tanto quanto il cerotto dell'umiliazione, una sera girovagavo per le strade attorno all'osservatorio di Amisan. C'è un punto remoto della città, che conoscono solo gli esploratori curiosi, in cui la spiaggia scorre continua fino alle case, e queste non sono a picco, ma la sabbia arriva fin quasi dentro porta d'entrata. "Chi va là" gridai.

Dietro al piccolo cumulo abitato, s'incontra una staccionata di legno non trattato, nero, incrostato di sabbia e salsedine, messo insieme alla bene meglio, con dei chiodi arrugginiti che escono fuori dalle crepe nate col tempo. "Chi va là!" per nulla imbarazzato, continuai a gridare a vuoto, perché in quella notte stellata e buia, illuminata solo dagli astri e da quei pochi lampioni che l'amministrazione aveva lasciato accesi per risparmiare, vedevo una sagomina da lontano che guardava davanti a sé. Era di profilo, o era un'allucinazione. I miei occhi ubriachi vedevano un ragazzo dal naso rotondo e coi capelli tagliati male che fissava i muri delle case.

the Blue Neighborhood | VKWhere stories live. Discover now