Non è lui.

Adriano è morto.

Non è lui.

Lo ha ucciso e si è impossessato del suo corpo.

«Non esaltarti, non ti sto toccando perché mi va» ci tenne a precisare con fare sprezzante. Era solo una scusa per parlarle senza destare sospetti. Si odiò per non essere stata in grado di restare immobile e avergli dato la certezza di aver provato qualcosa attraverso quel contatto.

«Cosa non hai capito del fatto che mi fai schifo?» gli rimarcò aspra, le dita che formicolavano per l'esasperante impulso di colpirlo. Come poteva anche solo insinuare che la cosa la esaltasse? Provava vergogna per le sensazioni che le sue mani le suscitavano, perché non erano soltanto di rabbia, ma anche di lussuria. Odiava che si assemblassero ai suoi fianchi come delle parti meccaniche che non avrebbero potuto funzionare senza fondersi insieme.

La presa sulla vita si fece più salda, cosa che non aveva molto senso, poiché lei non si stava divincolando.

Chiuse gli occhi e rivide la foga con cui l'aveva afferrata per quegli stessi fianchi e spinta contro il muro, a testimoniare che quelle mani, che ora le trasmettevano solo gelo, sarebbero state ancora in grado di sprigionare fuoco se il loro proprietario lo avesse voluto, se l'avesse ritenuta all'altezza di ricevere quelle fiamme.

"Voglio entrarti dentro" le aveva bisbigliato ansante, dopo averle fatto perdere il lume della ragione con i suoi baci famelici. Le aveva artigliato il viso e aveva premuto la fronte contro la sua in uno strano impeto.

Dapprima si era convinta che si riferisse a qualcosa di fisico, poi si era chiesta se piuttosto non alludesse a quell'istante, al suo bisogno disperato di imprimerglielo dentro.

Adesso, invece, era arrivata alla conclusione che si trattava di uno dei suoi soliti deliri di onnipotenza.

Voleva entrarle dentro, sì, ma per distruggerla dall'interno. Per invaderla, conquistarla, sterminarla.

Si era insinuato dentro di lei con l'inganno, come un infido cavallo di Troia, un virus camuffato da panacea che le aveva fritto ogni circuito. Si chiese se non le avesse somministrato piccole dosi di veleno ogni volta che le sue labbra l'avevano toccata, proprio per condannarla a una morte lenta e straziante.

«Perché non la facciamo finita subito con questa pagliacciata? Ormai Leo lo sa. Potete finalmente cavalcare verso il tramonto, che senso ha aspettare?» Il timbro era irridente, glaciale e controllato come in aereo, eppure Cat colse una novità.

C'era stata una vibrazione sospetta nel momento in cui aveva pronunciato il nome di Leonardo. Una sua corda vocale si era rifiutata di suonare allo stesso modo delle altre, si era spezzata, facendo trapelare un sentimento di rabbia.

La rabbia era la sua unica possibilità, avrebbe potuto fare perno su quella per distruggerlo.

Vuol dire che sei ancora lì dentro, Adriano. Dammi un altro segno.

Si girò per guardarlo in viso, voleva sapere se avrebbe visto anche nei suoi occhi una luce diversa.

Li dividevano una manciata di millimetri, ogni sua cellula si tendeva verso di lui, poteva quasi vederle proiettarsi fuori dal suo corpo e allungarsi come delle mani invisibili per afferrarlo.

Doveva fare almeno un tentativo.

«Hai ragione. Ma per quanto io stia morendo dalla voglia di chiudermi in una camera con lui e farmi scopare così forte da rompere la testiera del letto, ha appena rotto con Bea e non posso farle questo. Devi continuare a farmi da ruota di scorta ancora per un po'» sorrise astuta, decisa a scatenare l'unico sentimento che credeva di aver percepito in lui.

Ira. La Sindrome di Didone (Vol.3)Where stories live. Discover now