13. Un angelo in caduta libera

100 2 0
                                    

Dentro all'amore c'è una punta d'odio
e vice versa
-coez

Lucas
Quella ragazzina mi farà uscire fuori di testa. Pensai.
O l'ha già fatto? Sussurrò una vocina nei meandri della mia mente.
Rientrai subito nella tenuta. Ero diretto in camera sua dove poco prima avevo notato una felpa lasciata sup letto.
Più che una camera da letto sembrava un accampamento. Avevamo dormito in cinque in quella camera prima del suo coma e non si riusciva a distinguere dove cominciassero le cose di uno o dell'altro. E nessuno ci aveva messo più piede dopo quell'ultima sera tutti insieme.
Presi al volo la felpa grigia che avevo notato per correre di nuovo da lei che stava continuando a giocare sotto la neve. Una bambina.
Eppure ai miei occhi era bellissima. I capelli che adesso le svolazzavano liberi attorno al viso seguendo i suoi movimenti. Le guance arrossate dal freddo, quasi del medesimo colore dei capelli. Gli occhi chiusi e un grande sorriso che terminava in due piccole fossette. Ma soprattutto la gioia che emanava e la serenità anche dopo tutto quello che aveva passato.
Lei non se ne rendeva conto ma io la vedevo. E vedevo perfettamente che per quanto fosse forte desiderava qualcuno che la proteggesse. Che fosse qualcosa più di un bodyguard o un amico.
Mi sarebbe dovuto dispiacere interrompere quel suo momento di spensieratezza ma a dirla tutta non me ne poteva fregare di meno. Falso, sussurrò di nuovo quella voce. Ma non avrei potuto permetterle di prendersi chissà quale malanno.
Le infilai la felpa sulla testa bloccandole le braccia lungo i fianchi. Era esilarante. I capelli che le incorniciavano il viso, le braccia bloccate, ma soprattutto l'espressione contrariata che potevo scorgere dentro il cappuccio.
Resisti. Resisti Lucas. Non baciarla.
Potevo sentire le sue labbra sulle mie senza averle mai toccate.
Avrei voluto prendere il suo viso tra le mani e baciarla. Assaporare ogni centimetro delle sue labbra e scoprire che sapore avessero. Ma se avessi cominciato non sarei riuscito a fermarmi.
Vedevo il suo sguardo vagare nel mio. Potevo sentire i suoi occhi gridarmi i suoi pensieri. Ed era spaventoso, perché stava pensando le mie medesime cose.
Perché se era così sbagliato a me sembrava così giusto? Ero il suo bodyguard e lei la mia principessa. Avrei dovuto proteggerla senza instaurare alcun tipo di rapporto. Ma una ragazza così come può non entrarti nel cuore?
Mi allontanai. Come facevo sempre. E sarei voluto scappare di nuovo da lei. Ma cosa ci trovavo in lei? Non aveva nulla di speciale. Almeno così mi ripetevo fino alla nausea per convincermi.
«Lucas» ma io avevo già cominciato ad allontanarmi.
Mi ero già girato per correre su per le scale per poi dirigermi nella mia stanza quando mi afferrò con forza il braccio.
Ora aveva indossato la felpa.
«non ti permetterò di scappare di nuovo» e il tono che usò non le apparteneva. Era il mio tono di voce. Quelle che le rifilavo ogni volta. Ed era terribilmente irritante.
La sua mano mi stava stritolando il polso. Guardai quel contatto e poi lei. Le feci capire che doveva lasciarmi il polso.
«e chi mi assicura che non scapperai?» mi stava provocando e aveva anche alzato il sopracciglio sinistro.
Girai il mio polso con la sua mano ancora avvinghiato avvicinandola a me. Di rimando anche lei si avvicinò. Eravamo a pochi centimetri di distanza.
«perché se avessi voluto l'avrei già fatto»
Il suo sguardo venne catturato da qualcosa sulla mia fronte. Avvicinò la mano libera sgranando gli occhi e mostrandomi le dita macchiate di sangue.
«volevo solo dirti che stavi sanguinando e volevo ricambiare il favore di prima, ero semplicemente preoccupata» preoccupata?
«faccio da solo» e con uno strattone mi liberai della sua presa.

Juliette
Le braccia mi caddero pesanti lungo i fianchi. Lo sguardo ancora fisso dove la sua figura era svanita. Un tic attirò la mia attenzione. Erano le gocce del suo sangue che stavano macchiavano la neve accanto al mio piede. Non mi ero accorta che avesse perso così tanto sangue. Forse avrei dovuto seguirlo. Volevo aiutarlo ma la paura che mi allontanasse di nuovo mi bloccava. E le lacrime minacciarono di uscire di nuovo. Solo che quella volta non ci sarebbe stato nessuno a consolarmi.
Alla fine mi scese una lacrima. Una sola. Una lacrima traditrice che si andò a mescolare con il suo sangue.
E anche se sapevo che mi avrebbe allontanata di nuovo il mio corpo corse nella sua direzione ancor prima che la mia mente metabolizzasse. Era una sensazione nuova, ma non mi dispiaceva.
Non lo trovavo. Iniziai a correre senza una meta. A vagare per i lunghi corridoi. A perdermi tra cunicoli e le stanze inesplorate.
Alla fine ero giunta una stanza semicircolare. Non c'era nulla a parte delle grandi vetrate, un pianoforte e un divano.
Poggiai le dita su di esso e applicai un po' di pressione facendolo suonare. La nota riecheggiò nella stanza dissolvendosi lentamente in un lungo eco.
Mi sarebbe piaciuto saperlo suonare. Amavo la musica ma non avevo mai avuto l'opportunità di imparare. Avevo fatto solo qualche lezione gratuitamente a scuola, ma niente di più.
Forse una principessa avrebbe dovuto saper suonare uno strumento ma mi ero già arresa al pensiero di essere una principessa mancata.
Sarei potuta venire qui a leggere. Sembrava un luogo al di fuori dello spazio e del tempo. Non possedeva lo stile del resto della tenuta. Non era barocco. C'erano archi e incisioni ovunque. Forse avrei dovuto seguire di più le lezioni di storia dell'arte.
Sentii una mano poggiarsi sulla mia spalla. Mi girai per assestare a chiunque ci fosse dall'altra parte un pugno nel bel mezzo della faccia. Lui si abbassò schivandolo.
«diamine se rispondi così a qualsiasi contatto fisico poveretto il tuo futuro ragazzo» mi canzonò Lucas.
Di nuovo lui.
Ora ero io a voler scappare. A voler restare da sola. Forse semplicemente per fargli provare personalmente tutto quello che sentivo ogni volta che mi trattava in quel modo.
«non eri quello che voleva starsene per i fatti suoi?» lo provocai raddrizzando la postura per risultare più minacciosa.
Il suo sguardo affilato. Quel ghigno. Nella mia testa buttai un verso di disapprovazione. Avrei voluto avergli assestato quel pugno. Mi dava sui nervi come...non come pochi. Solo lui riusciva a farmi perdere il senno della ragione.
«forse si, forse no, l'importante non è che adesso io sia qui?» e per quanto sembrasse impossibile vidi il suo ghigno cresce sempre di più.
Il suo sopracciglio. Non l'aveva ancora curato. E allora cosa aveva fatto? Avrei voluto chiederglielo ma ero troppo orgogliosa.
Ma quella voglia di ucciderlo. Di saltargli al collo e strozzarlo. Forse nascondevano qualcosa. Forse erano solo la maschera di qualcosa di più profondo. E che ci spaventava a morte. Forse nasconderlo era più facile. E forse e dico forse, quel qualcosa adesso stava iniziando ad uscire e si era stancato di essere tenuto a bada.
Un click e poi una voce:«ma che carini che siete, forse un po' troppo vicini?» Marco.
Poi ci girò il suo telefono che conteneva una nostra foto. Ci ritraeva in quel momento ma era tutto surreale. Eravamo vicinissimi. E io non me ne ero neppure accorta. Eravamo a un soffio di distanza. Sembrava che anche con un impercettibile movimento le nostre labbra si sarebbero toccate. Il mio corpo era proteso verso il suo che sembrava avvicinarsi. Era autoritario e io lo sembravo ancora più di lui. Il suo sguardo affilato e il mio irritato. Ma la cosa che mi fece quasi sobbalzare furono le nostre mani. Non erano unite. Ne sfacciate. Era un'unione innocente. Le nostre dita che si cercavano a vicenda e il suo indice intrecciato al mio.
A quel punto ci saremmo dovuti staccare. Fare un balzo all'indietro perché se ci aveva potuti beccare Marco lo avrebbe potuto fare chiunque. Ma non ci stavamo baciando, non stavamo facendo niente. Eppure sembrava tutto sbagliato e allo stesso tempo giusto.
Ebbi paura. Non mi sarei mai aspettata il suo prossimo gesto. Oltre ad aver avvinghiato il suo indice al mio adesso aveva intensificato il gesto. E giocherellava con la mia mano. Non eravamo più uno di fronte all'altro ma eravamo rivolti verso il mio migliore amico.
Lo sguardo di Marco ebbe una piccola mutazione.
«Lucas posso parlarti un attimo in privato?» Marco usava di rado quel tono. Serio e irritato.
Uscirono lasciandomi sola. Potevo udire dei mormorii ma sapendo che il cip amplificava anche l'udito si erano allontanati di molto. Tornò solo Lucas. Sembrava adirato e l'avevo notato dal sonoro rimbombo che aveva provocato sbattendo con forza la porta.
«allora non volevi ricambiare il favore?» disse indicandosi il sopracciglio.
E così questa volta mi ritrovai di nuovo nel mio bagno ma dall'altra parte. Era lui appoggiato al lavandino con le braccia lungo i fianchi e le mani che stringevano la superficie. Le gambe aperte per farmi avvicinare il più possibile a lui.
Ero intenta a passare il cotone con delicatezza sul suo sopracciglio quindi non facevo molta attenzione ai suoi movimenti o al suo sguardo.
Avevo scoperto che si era ferito anche in altri punti. Tutte ferite superficiali. Ma che sarebbero dovute essere disinfettate e a che c'ero me ne occupai io. Non l'avevo mai visto senza maglietta prima di allora. Anche se per un periodo avevamo dormito insieme non si era mai fatto scorgere in quella situazione.
In un primo momento non ne compresi il motivo. Ero troppo concentrata nel prendermi cura di quelle ferite. E devo ammetterlo anche a studiare i suoi tatuaggi. In particolare quello sul bicipite. Un angelo in caduta libera. Le ali rivolte verso l'alto e una in particolare stava perdendo delle piume. Ipotizzai fosse Lucifero. L'angelo caduto. Mi chiesi se possedesse un significato e se si quale fosse. Io e la mia curiosità.
Mentre lo ripassavo con l'indice l'occhio mi cadde sullo specchio. E compresi il perché. Aveva la schiena solcata da cicatrici. Chi più profonde, chi più lunghe.
«Lucas...» mormorai portandomi le mani a coppa sulla bocca.
Aggrottò le sopracciglia e guardò il riflesso della sua schiena nello specchio.
Alzò gli occhi al cielo ma poi il suo sguardo si intristì come se si fosse dimenticato della loro esistenza.
«Juliette» mi chiamò dolcemente. Ma io ero bloccata. Immobile. E avevo cominciato a tremare. E qualche lacrima stava iniziando a formarsi. Era come se mi stessi facendo carico del suo dolore per affievolirlo.
Mi prese le mani. Allontanandole dal mio viso e stringendole nelle sue.
«dovresti avere paura di me» ammise.
«magari mi sopravvaluti e sono solo una stolta ragazzina» riuscii a controbattere.
Ma tenevo lo sguardo fisso sul suo petto e su ciò che si trovasse dall'altra parte.
Tenendo ancora la mia mano destra nella sua sinistra le avvicinò al mio mento alzandomelo. Voleva che lo guardassi.
Inclinò il viso. «non fartene carico»
Ma come faceva? Come riusciva sempre a capirmi. A leggermi. Sembrava vedermi per davvero. E non fermarsi all'apparenza. A ciò che decidevo di mostrare agli altri. Se una parte di me o una me totalmente reinventata.
Piansi di nuovo. Per la seconda volta in un giorno. E per la seconda volta davanti a Lucas. E anche questa volta mi stupì. Sarei dovuta essere io. Non lui a consolarmi. Ma tirò le mie braccia dolcemente facendomi appoggiare al suo petto. Solo allora le sue mani si sciolsero dalle mie per avvolgermi con le sue grandi braccia possenti. Ma avevo paura. Avevo paura ad abbracciarlo e recargli dolore toccando quelle cicatrici.
Spostò una mano sulla mia nuca accarezzandomi. «puoi abbracciarmi piccola» era così assurdo. Io che soffrivo per qualcosa che aveva dovuto subire lui.
«perché ?» ormai mi ero lasciata andare ad un pianto disperato. Mi odiavo. Odiavo piangere davanti agli altri perché questo per me era sinonimo di debolezza. Ma non conoscevo altro modo per sfogarmi. Ognuno possedeva il proprio e, per quanto lo odiassi, quello era il mio. Io piangevo, Alyssa sistemava, Marco provava un turbinio di emozioni insieme alle altre, Leo cucinava o provava a distrarsi e Lucas, a quanto pare, ignorava il problema. Come se non fosse mai esistito.
Continuavo a singhiozzare e a tremare. Però mi sentivo al sicuro. Sentivo di potermi lasciare andare. Perché lui mi avrebbe presa e mi avrebbe protetta. È solo il suo lavoro Juliette. Mi ripetevo perché abbandonarsi a una bugia era più che ammettere la verità.
«shh, non fartene carico, io sto bene» ma sapevo che non era vero lo sapevo e questo non mi dava pace.

Quella notte mi addormentai con indosso il mio solito pigiama e la felpa grigia che, solo dopo, scoprii fosse di Lucas. Alyssa era ancora rinchiusa in camera sua e il tutto mi preoccupava. Sapevo che le servissero i suoi spazi. Ma io non riuscivo a non farmi carico del dolore altrui. Inoltre mi iniziavo a chiede se sarebbe mai tornata a essere se stessa e se sarebbe mai uscita da quella camera. Leo era scomparso. Ignoravo dove fosse finito. E Marco non l'avevo più rivisto. Mi chiesi se c'entrasse quella conversazione con Lucas.
Quest'ultimo non mi lasciò più sola. Si mise il pigiama e si addormentò con me.
«ti prometto che non mi addormenterò finché non lo farai anche tu» ed era rimasto fedele alla sua promessa.
Avevamo provato ad addormentarci a cucchiaio ma continuavo a rimuginare su gli ultimi avvenimenti. Troppe cose in troppo poco tempo. E pensare che pochi mesi fa ero una ragazza normale e con una vita ordinaria.
Allora decisi di provare un'altra posizione. Mi girai verso di lui, continuava a tenermi stretta a se, e nel mentre mi accarezzava la schiena. Io avevo appoggiato il palmo di una mano sul suo petto e con l'indice dell'altra ripassavo il tatuaggio dell'angelo. E mi addormentai così. Nell'incastro perfetto.
Ma anche dormendo non ebbi pace.

«Juuuliette» mi chiamò una voce cantilenante.
Mi girai intorno guardando l'ambiente circostante spaesata.
Non era un'ospedale questa volta. E forse avrei preferito che lo fosse.
«Juuuliette» mi chiamò di nuovo.
Provai a cercare ma più mi addentravo nel bosco più la paura cresceva. E l'inquietudine per la sua somiglianza con il bosco di Biancaneve. Da bambina non avevo dormito per notti.
Iniziai a sentire i rumori di auto in lontananza. Marmitte, sterzate. Li seguii e mi condussero a una strada. Ero confusa e non riuscivo a capire il senso di quel sogno.
Indossavo una camicia da notte. Io che di solito non indosso un pigiama se non è stravagante.
Vidi un auto arrivare nella mia direzione ma me ne accorsi troppo tardi. Ormai mi ero abbandonata al mio destino. Mi coprii la faccia per non vedere e aspettai la collisione con l'auto. In fondo i miei incubi mi facevano vivere questo. Le morti.
Ma la collisione non avvenne.
L'auto accostò. Una Jeep nera. E da essa ne uscì una persona impensabile.
Elaine. La figlia del primo ministro. La figlia dell'assassino di Milo.
Ma anche se era sua figlia non potei non correre ad abbracciarla. D'altronde avevo provato i suoi stessi dolori. Avevo vissuto la sua vita per una notte. Avevo conosciuto il significato del vero amore attraverso di lei. Avevo capito l'importanza di Danny e cosa volesse dire perderlo. Avevo vissuto nei suoi panni.
Le buttai le braccia al collo. La strinsi a me con forza e con impeto. Anche se sapevo che non era reale. Che fosse morta. Mi sembrava così vero. Ma ormai sapevo che i miei incubi facevano quell'effetto.
Mi cinse le braccia con le sue mani. Ormai erano minuti che ci abbracciavamo.
«Juliette»
Era sua la voce che avevo udito pochi secondi prima.
«io sono viva»

Princess Treatment Hikayelerin yaşadığı yer. Şimdi keşfedin