11. Milo

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Sei l'abbraccio di cui ho bisogno quando voglio che nessuno mi sfiori.
-Andrew Faber

Marco
Era di nuovo il mio turno e come ogni sera l'avrei diviso con Leo. Prima di arrivare in ospedale e raggiungerlo feci una sosta. Presi due pizze margherita e poi mi recai in ospedale. Quel giorno aveva deciso di andare prima del solito per stare un poco con suo fratello. Era quello che se la stava vivendo peggio. E sapevo anche il perché. Non ero stupido e non volevo essere cieco. Non come Leo. O Juliette.
Gli aveva portato una coperta e del cibo. Ma mi aveva detto che gli aveva risposto malamente. Era un buon segno.
Avevo lasciato Aly che dormiva nel suo letto. Loretta le aveva detto di riposarsi e che sarebbe andata lei. Alyssa aveva fatto un po' di capricci ma poi so era fatta convincere. Aveva fatto una doccia e poi era andata a letto. Si era addormentata con me. Mi ero sdraiato solo un attimo con lei per poi svegliarmi ore dopo con il suono della sveglia che avevo impostato per precauzione. Era sdraiata sul mio petto. Era tranquilla. Dopo una settimana infernale era bello vederla rilassata. Riusciva a darmi pace.
Mi era dispiaciuto doverla lasciare. Avevo paura si svegliasse e non trovandomi si preoccupasse. Quindi le avevo lasciato un post-it sul comodino con un tost accanto.

 Quindi le avevo lasciato un post-it sul comodino con un tost accanto

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Volevo che riposasse senza pensieri. E conosco le mie migliori amiche come le mie tasche. Avrebbe mangiato solo quel tost e se non gliel'avessi lasciato neanche quello. Ora dovevo essere io forte. Per le mie amiche. Per le mie ragazze.

Avevo conosciuto Juliette un giorno d'estate di qualche anno fa. Solo dopo aver scoperto la verità ho capito che il nostro non era stato un incontro casuale. Mia madre e sua madre erano amiche di vecchia data. Per questo avevano deciso di crescerci lontano da quel mondo. Insieme. Ma se non fosse stato un incontro casuale qualcuno avrebbe potuto capire o storcere il naso e iniziare a fare domande. Quindi un pomeriggio d'estate. Qualche giorno dopo il compleanno di Juliette. Eravamo andati casualmente nello stesso parco giochi. Era sull'altalena e si dondolava da sola. L'avevo vista mandare via sua madre poco prima proprio perché volesse fare da sola. Con il passare degli anni capii che fosse una sua prerogativa. Sentiva la necessità di fare da sola. Si chiudeva su se stessa e non faceva entrare nessuno nel suo dolore. Però per fortuna non era una brava bugiarda.
Mi avvicinai a lei come uno tsunami. Non ero il classico bambino 'mi avvicinai timidamente', affatto. Ero un tornado di emozioni. Non riuscivo a frenare ciò che provavo. Tutto sembrava amplificato e tutt'ora è così. Un mal funzionamento del mio cip. Ma nessuno lo sa. Neanche Aly e Juli. Ammetterlo vorrebbe ammettere che c'è. È lì. Significherebbe ammettere che sono rotto. Ma con il tempo ho imparato a nascondere le mie emozioni amplificate. Le mandavo giù come caramelle. E si accumulavano. Ma io sto bene.
«posso spingerti io?» mi dondolavo sui talloni tenendo le mani dietro la schiena.
Sentii uno sfregare. Aveva fermato l'altalena. Ohoh ora mi sta fissando.
«no» e riprese a dondolarsi.
La fermai posizionandomi davanti a lei. Mi fissava sbattendo le ciglia e questa volta era anche parecchio accigliata.
«perché ?» esigevo delle spiegazioni.
«ma perché vuoi spingermi? Neanche ti conosco» era palesemente scocciata.
Avanzai una mano verso di lei:«piacere Marco».
La fissò per qualche istante:«piacere Juliette Molinari vivo in via Dante numero 11 e tu?» mi piaceva il suo modo bizzarro di presentarsi.
«ora posso spingerti» continuavo a dondolarmi guardandomi le punte dei piedi.
«Marco come?» alzai lo sguardo.
«cosa?»
«Marco come?» insistette.
«Marco Borbón» risposi fiero.
Mi rise in faccia:«impossibile, non sei un reale e men che meno imparentato con la famiglia reale Spagnola» ma io lo sono.
"Non dire mai a nessuno chi siamo, promettimelo amore" ricordai le parole di mia madre. Era sul punto di piangere e avrei fatto di tutto purché non accadesse.
«esistono tanti Borbón» risposi vago.
Ma vedevo che non mi credeva. E non sapevo cosa fare. Se avessi parlato avrei soltanto peggiorato le cose.
Pensa Marco.
«Marco Borbón, che non fa parte della famiglia reale di Spagna, vuoi essere mio amico?» lei era timida.
Non era come me. E amavo che non lo fosse. Amavo il suo carattere pacato. Mi dava serenità. Era un tranquillante per la mia personalità.
Solo anni dopo capii che era calca solo quando voleva lei. Aveva un limite. E se per una qualsiasi ragione lo oltrepassava chiunque le avesse fatto un torto avrebbe passato le ventiquattro ore peggiori della propria vita.
Solo una volta me la trovai contro e qualsiasi, qualsiasi, cosa sarebbe stata meglio. Mi ritrovai a sperare che la terra sotto di me si aprisse e finisse in un girone infernale.
Alla fine al convinsi e la spinsi per tutto il pomeriggio. 5 minuti al massimo. Poi ci spostammo sullo scivolo.
Alla fine del pomeriggio avevo un amica. Una vera amica. Che già sapeva tutto e niente di me.

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