4 - NASCOSTI NEL BUIO (2)

25 7 15
                                    

Giancarlo Benisi si era sempre ritenuto una persona razionale. Qualcuno, a volte, gli diceva che era un po' "arrogante", e che voleva "sempre imporre il proprio pensiero", ma lui non aveva mai capito perché pensassero quello di lui. Aveva guidato le persone praticamente per tutta la vita, aveva preso decisioni importanti, corso dei rischi, e non aveva praticamente mai fatto errori. Gli sembrava del tutto normale, quindi, che tutti si affidassero a lui. Ma un conto era quando dava ordini ai suoi dipendenti, pagati per obbedire. Fuori dall'ufficio era un altro paio di maniche.

A casa era sempre stato un marito e un padre autoritario. Mai violento, ma severo. Sua moglie, remissiva per carattere, non si era mai azzardata ad alzare la testa e, in silenzio, l'aveva sempre subito. Avevano avuto due gemelli, con un carattere forte sin da bambini. Non l'avevano ereditato dalla madre, evidentemente. Crescendo, Giancarlo aveva fatto sempre più fatica a tenerli a bada e, di scontro in scontro, di litigio in litigio, senza accorgersene, li aveva allontanati. Subito dopo la laurea erano stati assunti entrambi per una grande multinazionale tedesca e si erano trasferiti. L'anno dopo, sua moglie morì. La pianse, ma non come per Stefano.

Stefano Nani, il solo vero amico che avesse mai avuto. La sua morte era stato un durissimo colpo per lui. Era l'unico col quale poteva sfogarsi e dire quello che pensava, ma anche l'unico che gli teneva testa, in un modo che lo faceva stare bene. Erano in perfetta sintonia. Spesso si rintanavano nel loro covo, un casolare di proprietà di Giancarlo sulle colline della Val di Zena, dove non era inusuale imbattersi nella pianta del ginepro, e, di conseguenza, ribattezzato i "Ginepri". Passavano là anche l'intero fine settimana a volte, bevendo, giocando a carte, guardando film e facendo lunghe passeggiate nei dintorni. Era il loro momento d'evasione, soprattutto per Benisi, da quel mondo che non gli dava retta in cui viveva.

Aveva sempre abitato in condominio e aveva sempre fatto il caposcala, ovviamente. Ogni riunione era una guerra! Anche qui, come a casa, c'era sempre qualcuno che doveva "controbattere". Aveva dovuto lasciar perdere a volte... Lasciare e perdere erano due parole non presenti nel suo vocabolario personale, tantomeno accoppiate. Quando era venuto a sapere che stavano costruendo un nuovo complesso d'edifici, all'avanguardia dicevano, non si era lasciato scappare l'opportunità. Stava per andare in pensione, aveva un bel gruzzolo da parte, e un altro consistente stava per arrivare. Aveva acquistato entrambi gli appartamenti all'ultimo piano dell'edificio centrale e, approfittando dei lavori appena iniziati, li aveva uniti in un'unica, grande casa.

Aveva sessantotto anni quel giorno di giugno. Era ricco, solo, e stava guardando il tennis in tv, in mutande sul divano, con il climatizzatore che gli sparava aria fredda addosso, quando aveva udito il primo boato.


La prima cosa che decise di fare, dopo aver visto la devastazione di Bologna e dopo aver ascoltato quello sconclusionato messaggio, era di agire. Era più forte di lui. Doveva prendere in mano la situazione. Aveva degli orribili presentimenti.

Constatò che non funzionava più nulla: tv, radio, telefoni. Tutto morto. Con una punta di sarcasmo, pensò ai suoi figli: come avrebbero fatto a mettersi in contatto con lui per assicurarsi che stava bene? Non li sentiva da Natale scorso, in cui si erano semplicemente fatti degli insipidi auguri reciproci. Si infilò una canottiera, un paio di pantaloncini, inforcò le ciabatte e uscì sul pianerottolo, scendendo le scale di un piano. Si attaccò al campanello dell'appartamento sotto il suo. Nessuno rispose. Provò allora a quello di fronte e un ragazzino, in lacrime, aprì.

«Paolino! Cosa hai fatto?»

«Ho... ho paura.»

«Sì, è tremendo, ma devi essere coraggioso! Papà dov'è?»

«È giù, fuori...»

Una donna apparve dietro di lui.

«Grazia... Ciao.»

VuEffe (parte 1) - Il sorrisoWhere stories live. Discover now