XIII - Un patto

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Adriel

«Qual è la cosa più importante della tua vita?»

«La mia moto»

«Dio, Adriel. Come si fa, con quelli come te?»

«Non si fa»

Il gatto grigio di Henry sbadigliava sul davanzale della finestra. Per un attimo mi chiesi cosa si provasse ad essere così. Senza la ragione. Una sensazione da provare.

Si sistemò gli occhiali tondi sul naso e rovistò tra i fogli della sua scrivania. Trovò una cartellina grigia e l'aprì. Ne tirò fuori un fascicolo con una mia foto da bambino, tenuta ferma da una graffetta.

«Dodici anni fa mi hai risposto con il nome di tua madre. Cos'è cambiato? Non lo è più, forse?» incalzò, fissandomi da sopra le lenti trasparenti e lucide.
Lo guardai placidamente.

«Non può essere importante qualcuno che non esiste più»

«Oh, sai cosa direbbe Ron Weasley? Che hai bisogno di rivedere le tue priorità»

Sbuffò e lasciò cadere il fascicolo sulla scrivania, appoggiando tutto il peso sullo schiena della poltrona girevole di pelle. Io ero immobile, fermo a fissare il centrotavola in vetro con le caramelle al miele.

«Per oggi basta così» mi alzai, stirandomi i pantaloni. Sbadigliai come aveva fatto il gatto poco prima e mi stiracchiai senza ritegno, mentre Henry si era tolto gli
occhiali e si stava stropicciando il viso, guardandomi quasi sconsolato.

«Oggi è arrivata qui una ragazza del collegio»

Disse all'improvviso. Scrollai le spalle, avviandosi verso la porta. Il gatto mi seguì e fece le fusa attorno alle mie gambe. Mi calai per fargli una grattatina dietro le orecchie.

«È pieno di matti il Lone Star»

«Già, ma lei è una nuova. Ha un accento straniero»

La mia mano si congelò tra le orecchie del gatto. Strinsi i denti tanto da farmi male. Ogni ossa si immobilizzò.

«Perché è venuta da te?»

Non mi alzai. Non mi voltai. Tenevo le mani a penzoloni sulle ginocchia piegate. Lo sguardo fisso sulla moquette scura. Una sensazione strana si fece spazio nel mio petto.

«Le ho dovuto somministrare degli ansiolitici. Soffre di attacchi di panico»

Il minuto dopo ero già sulla moto.

Stavo dando gas e sorpassando macchine che suonavano e mi gridavano dietro. Non ebbi neanche il tempo di allacciarmi il casco sotto al mento.

Non ci parlavamo più da quel pomeriggio al granaio. L'avevo allontanata con ogni arma che mi era possibile. Ieri era mercoledì e non ero a lezione. Questo mi aveva reso più facile evitarla. Fingevo non esistesse e le passavo accanto senza neanche abbassare gli occhi su di lei.

Avevo bisogno di disintossicarmi dopo ciò che era successo. Lei aveva visto. Ad Henry non lo avevo raccontato. Ma qualcosa mi disse che non aveva usato parole casuali. Aveva il segreto professionale, non poteva certo dire cosa andava a fare la gente da lui. Che avesse capito qualcosa? Che pensasse che questo avrebbe potuto riaccendere uno spiraglio emotivo nella mia apatia? Puttanate.

Ma ero assetato come uno squalo. Di conoscerla, di sapere. Era un enigma senza soluzione. Ero scorretto, perché io volevo scoprire, ma non mi lasciavo guardare.

Ma lei era così diversa, così nuova dalla mia normalità, che mi provocava senza fare nulla. Mi istigava ad inseguirla. Non potevo certo dire di provare dispiacere o empatia nei suoi confronti, ma mi accendeva di qualcosa che non sapevo spiegare.

CUPID IS A LIAR [paused]Where stories live. Discover now