VI - Sensi di colpa

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Luce

L'infermeria era sempre uguale. E quella era la terza volta che la vedevo in pochi giorni. Tutto il collegio era praticamente sveglio e pimpante, tranne la preside, che era stata lasciata dormire per la sua veneranda età, per non rischiare di avere un altro ferito.

La luna splendeva alta nel cielo e la frescura della notte mi entrava fin dentro le ossa. Il mio pigiama si era impolverato e i miei capelli non erano messi in piega. C'era mancato poco che uscissi con i bigodini sui capelli. Un brivido mi attraversò alla sola idea.

L'infermiera si era svegliata e, con gesti stizziti, aveva medicato Adriel con ancora gli occhi chiusi e movimenti bruschi. Avevo sentito molto parlare di lui durante quella settimana. A dirla tutta, chiunque parlava di lui. Sembrava il protagonista di quella scuola, era sulla bocca di ogni ragazza e oggetto di invidia di ogni ragazzo.
E il più delle volte, non faceva assolutamente nulla, se non passarsi le mani tra i ricci e camminare in giro come se i corridoi gli appartenessero, guardando male chiunque.

Io gli ero stata alla larga il più possibile. Ma aveva qualcosa che mi incuriosiva. Ero lì da così poco tempo e già mi facevo tante domande su di lui, figuriamoci chi lo conosceva da una vita. Aveva una patina vitrea sugli occhi, come se guardasse il mondo da un'altra prospettiva, come se ci guardasse dall'alto del suo trono di spine.

Avevo aspettato su una piccola seggiola in plastica dura, mentre Ettore era accanto al letto, con lui. In quella saletta mi mancava l'aria, eppure entrava una ventata di gelo dalla finestra. A momenti mi sarei addormentata sulla sedia e mi sarebbe venuto un torcicollo infinito. Gli occhi mi si chiudevano e pensai bene di poter riposare, quando la vecchia infermiera gracchiò qualcosa, prima di uscire fuori, sbattendo la porta con un tonfo. Saltai sulla sedia, sgranando gli occhi come se non stessi per dormire un attimo prima.

«Ma che succede?» sbadigliai.

«Quella racchia vuole andare a dirlo alla preside» sbuffò Ettore, afferrando al volo una coperta da uno scaffale e avvolgendosela a mo' di mantello. Poi uscì, seguendo i passi della donna e chiudendosi con uno schianto la porta alle spalle.

L'ambulatorio cadde in un silenzio imbarazzante.
Spostai gli occhi dalla porta al lettino. Adriel se ne stava con un braccio sulla fronte - quello buono - e gli occhi chiusi. Il petto si alzava e si abbassava con regolarità. Al chiaro di luna, il suo profilo sembrava quello di una statua.
Non mi ero accorta di starlo fissando, fin quando non me lo fece notare, cogliendomi con le mani nel sacco.

«Non ti stavo fissando»
Dichiarai, spostando simultaneamente lo sguardo verso la finestra. Mi chiesi se quella era la stessa luna che si vedeva dall'Italia e se mia madre fosse tra le stelle che la circondavano. Mi chiesi se lui la stesse guardando come me, se ci fossimo sfiorati senza saperlo, passati a tanto vicino da sentire il richiamo delle molecole gemelle di DNA che si riconoscono.

«Non mi hai ancora detto come ti chiami»

«Non me l'hai mai chiesto»

«Te lo chiedo adesso»

«Come se non lo sapessi» mormorai, stringendomi tra le spalle. Fissavo ancora fuori dalla finestra, ma lo sentii muoversi nel letto e un leggero fruscio di lenzuola. La mia colonna vertebrale tremò, sentendosi osservata.

«Sì, be', girano veloci le voci qui in Texas, Luce De Angelis»

«Me ne sono accorta, Adriel Calloway»

Inevitabilmente un sorriso mi comparve sulle labbra, anche se cercai di reprimerlo. Lo osservai di sottecchi, ma lo trovai già con gli occhi nei miei. Io sorridevo timidamente, mentre lui era tremendamente serio e assorto da riflessioni che gli tessevano il viso.

CUPID IS A LIAR [paused]Kde žijí příběhy. Začni objevovat