V - Passato

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Adriel

Stava sognando la gita che avrebbe fatto l'indomani, al museo delle cere di Londra. Ma, nel suo sogno, qualcosa iniziò a puzzare di bruciato. Storse il naso.
Pensò che forse la mamma aveva bruciato il pasticcio di mele.

Gli sembravano le stesse urla che aveva fatto l'ultima volta che aveva lasciato i suoi toast per troppo tempo sul fuoco.
Ma stavolta stava gridando il suo nome.
Adriel si chiese cosa aveva da chiamarlo sua mamma, se il problema era il pasticcio di mele.

Così aprì gli occhi, ma gli venne subito da tossire. Fu colpito da uno spasmo talmente forte alla gabbia toracica che lo incollò al letto. Strinse il suo orsetto di peluche al petto e cominciò a tremare come una foglia.

Riuscì a trovare il coraggio di aprire gli occhi in una fessura sottile. Il volto della mamma, rigato di lacrime, che cercava di raggiungere la sua cameretta, si sfocava col fumo che riempiva la stanza.

Adriel non ricordava molto, a dire il vero. Si sentiva la testa girare. La nausea lo avvolse e la gola gli si strinse. Tossiva e si strozzava con la saliva. Non riusciva ad alzarsi dal letto. Poi le urla di sua madre. Il volto rigato di lacrime. Quei lineamenti ancora da bambina. Due occhi neri da cerbiatta. Una cascata di capelli scuri.

Adriel tossiva. Gli si chiudevano gli occhi e sentì i sensi venire meno.

Rosso.

Quella era l'unica cosa che ricordava.

E il calore. Come se fosse finito dritto dentro un vulcano che esplodeva.

Adriel si voltò un'ultima volta verso la mamma.

«Mia mamma aveva i capelli rossi» sussurrò a se stesso.
Scosse la testa come per scrollarsi una brutta visione. Ma al posto di sua madre c'era la ragazza nuova del collegio.

Piangeva e lo chiamava. Allungava una mano verso di lui. Adriel riuscì ad avere la forza di alzarsi e tendergliela. Ma lei, in quell'esatto momento, si accasciò verso il pavimento.
Tossì. Gli occhi verso l'alto. Il corpo che smetteva di combattere.

Rosso. Calore. Fiamme.

Mi svegliai in una zuppa di sudore.
Mi alzai ancora con le mani che tremavano. La testa mi vorticava come mai prima d'ora. Non distinguevo gli oggetti della stanza.

Afferrai dei libri sulla scrivania e li scaraventai per terra. Tirai un pugno nella porta di legno. La stanza tremò. Qualcuno urlò. Le luci si accesero nella stanza. Mi colpirono al volto come uno schiaffo.

La rabbia che avevo dentro si aggomitolava, si arrampicava come un ragno che tesseva la tela attorno alla mia gola.

Il dolore mi scoppiava negli occhi all'improvviso. Non sapevo da dove venisse, o forse lo sapevo, ma non volevo ricordarlo.

Pensavo sempre. Troppo. Non smettevo neanche per un secondo. Neanche di notte. Come una corsa forsennata, il mio cervello si sentiva in diritto di mandare in onda le immagini più sepolte della mia sofferenza; mi voleva ricordare che era lì. Che quello ero io.

Cocci rotti e traumi sparsi.
Ho questa cosa di non trovare pace. Di non averlo ancora imparato. Forse non c'era pace per chi, dalla vita, aveva ricevuto solo botte.

«Adriel, smettila, piantala! Ma che ti prende, amico?»

Era strano non sentire più il controllo del mio corpo. Mi sentivo uno spettatore inerme, che si gode lo spettacolo sull'ultima poltrona rossa della sala. Vedevo le mie mani a rallentatore incrostate di sangue, che afferravano oggetti non identificati che venivano scagliati contro le pareti.

CUPID IS A LIAR [paused]Where stories live. Discover now