2||alone

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"Capisci di star bene solo quando ti senti completa con te stessa, emotivamente e fisicamente.

Fino a quel momento, dovrai aspettare."


Passarono due anni.

Due lunghissimi anni per Amber.

Ogni mattina passava davanti alla camera di Elise e si fermava a guardarla con sguardo spento.
Passava la mano su quella porta in mogano e ne riusciva a riportare a galla i ricordi di quando appena bussava riceveva risposta. Il più delle volte era una risposta brusca, maleducata e sgradevole. 

Ma c'era.

Ora la casa era vuota. Letteralmente.
Le ragazze vivano con il padre, il quale, dopo la morte della figlia, se ne andò da quella casa, a suo parere maledetta.
Amber ci era troppo affezionata per lasciarla.
Già passeggiare per quei corridoi le riportava alla mente delle movenze, delle azioni, degli odori che erano tipici della sua infanzia. 

Quando tutto era perfetto.

Sospirò, scendendo le scale mestamente e a passi pesanti si diresse verso la cucina, dove sua madre si prodigava nella preparazione di ottimi pancake la domenica mattina.
Ora c'era solo una fievolissima luce che era resa soffusa dal lucernario opaco che il padre aveva fatto installare per dare più luminosità alla cucina.

Afferrò un bicchiere e lo riempì d'acqua, poggiandolo sul tavolo.
Poi si diresse verso il mobiletto del salone da dove estrasse un barattolino bianco di forma cilindrica.
Si sedette davanti al tavolo e aprì il barattolo, versando sul suo palmo della mano tre pasticche.
No, non era droga, anche se avesse tanto voluto che lo fosse.
Erano integratori di vitamine. Tre alla mattina e tre alla sera.

Le ingoiò facendole scivolare giù lungo la gola con l'aiuto dell'acqua.
Si alzò e si diresse lentamente in camera sua per prendere un cambio da indossare quell'ennesimo giorno da sola, a casa.

Ormai non usciva più, non ne sentiva né la necessità né c'era la voglia di affrontare la vita reale.

Passò involontariamente davanti alla porta specchio della cabina armadio e si bloccò sui propri passi, osservandosi da cima a fondo: era diventata leggermente più alta, le gambe erano notevolmente magre, il suo aspetto in generale fragile e tumefatto. Il suo volto dai tratti semplici era percosso da degli occhi rossi e delle profonde occhiaie violacee, le sue lunghe ciglia circondavano quegli occhi celesti, resi grigi dalla luce e dalle emozioni nulle.

Si guardò le braccia: i segni dei suoi "disegni" c'erano. E si vedevano.
Ogni volta stringeva la lametta e si tagliava, tagliava in profondità e più volte.
Questo riempiva almeno in parte il suo stato d'animo tormentato e percosso.

Emise un sospiro mentre si trascinava in camera per scegliere i vestiti.
Il giorno dopo sarebbe dovuta andare a scuola, per vedere se ce la faceva o doveva seguire dei corsi privati, come stava facendo da due anni. Un esperimento ideato dai suoi psicologi. Che idioti.

Lei da sola stava bene. Non feriva nessuno e nessuno feriva lei.
Niente entrava e niente usciva.
Era un involucro perfetto per lei, un universo dove lei era da sola e non aveva nessuno di cui preoccuparsi.
Era autosufficiente, non le mancava niente.

Almeno lei credeva.

A volte sentiva un bisogno encomiabile, un bisogno quasi primitivo di qualcosa.
Qualcosa di forte, che la spingeva a star male e a disegnare.
Più quel sentimento era forte e più lei si infliggeva dolore e sofferenze che però non la sfioravano.
Solo emotivamente. Fisicamente era distrutta, ma in un'universo dove nessuno ti giudica, nessuno ti dice cosa fare sei tu che decidi il tuo futuro, cosa dovrai fare, cosa sarebbe meglio per te.

Non tocca a nessuno decidere le tue sorti.

Demons  ||Lorenzo OstuniDove le storie prendono vita. Scoprilo ora