17. Il filo rosso

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[...]

Il vento della fredda notte sembrava tagliente come delle lame dei coltelli. A quell'ora si stava bene sotto le coperte, al caldo, ma non in giro.

Camminammo per chilometri, tra i sobborghi della periferia, al buio perché i lampioni erano rotti, rotti come il nostro umore in quel momento. Avevamo paura, paura che ci potesse succedere qualcosa, di incontrare qualcuno di losco o, peggio, di essere rapiti. Eravamo un po' terrorizzati: speravamo che Jackson non si facesse più vedere e che non sbucasse da un vicoletto, ammazzandoci entrambi, stavolta.

"Forse dovremmo chiamare la polizia, non pensi?" Propose Austin, rompendo il silenzio che c'era tra quelle vie inquietanti.

"Forse hai ragione, ma non abbiamo prove se non la pistola che ho preso; peccato che ora avrà le mie impronte sopra, perciò non avrebbe molto senso. Finiremmo solo nei guai ancora di più" Risposi, rimpiangendo di aver compromesso l'unica prova che ci avrebbe salvati dal mio pericoloso passato.

Ci fu un altro momento di pausa: l'unico rumore che si poteva udire, sopra i nostri ansiosi respiri, era un campanello a vento in lontananza. Il suono che emanava, sembrava una dolce melodia suonata dagli dèi dell'Olimpo, per colmare quel vuoto che si era creato quella sera.

"Scusami Austin. Scusami tanto, è stata tutta colpa mia: è stata colpa mia se oggi è finita male, se verremo perseguitati da lui o chissà che cos'altro; è tutto solamente colpa mia" Urlai nel bel mezzo della notte, su una strada poco illuminata, cadendo sulle mie ginocchia dallo stress.

"Ma Ale, che stai dicendo, non è stata colpa tua: è lui psicopatico, non tu. Devi solo tranquillizzarti, non hai fatto nulla; hai solo cercato di farmi passare una bella nottata, ma per colpa sua, è andata così" Disse, accovacciandosi, vicino a me, nel bel mezzo di una strada deserta, e abbracciandomi più forte che poteva.

Le mie lacrime ebbero la meglio. Non riuscivo a trattenermi; avevo bisogno di buttare tutto fuori. Perché, forse, quando nessuno ti guarda male, ti liberi, ti senti sicuro e così dici tutto quello che ti passa per la testa, tutto quello che ti tormenta, tutto quello che ti fa paura; forse io mi sentivo al sicuro, in mezzo al nulla, di notte, tra le braccia del mio ragazzo e così sbottai.

"Tu non puoi capire Austin; non è solo Jackson, sono io. Sono sempre stato io. Tu probabilmente non sai com'è vivere pensando costantemente di essere un peso per tutti, pensando sempre di non essere abbastanza, per niente e nessuno, pensando che forse sarebbe meglio se non vivessi su questo pianeta, pensando che la gente sarebbe più felice, tranquilla e leggera, senza di te. Tu non hai queste preoccupazioni, queste paranoie; io non ce la faccio più. Non sopporto più di avere un maledetto passato che mi perseguita e cerca di uccidere il mio futuro; io non riesco ad andare avanti avendo tutti questi timori e queste paure, legate alla mia vita e alle pessime persone che ho incontrato. Io non voglio più ricordare tutto quello che ho passato, tutto quello che mi è capitato: io non voglio ricordare la mia vita. Forse non ne vorrei avere neanche una".

Lui mi guardava, con gli occhi lucidi per quello che avevo detto. Mi si rompeva ancora di più il cuore a vederlo soffrire, per colpa mia, ma era tutto vero: io non volevo più vivere lì. Non volevo più vivere nel posto dove stavo patendo le pene dell'inferno; forse perché quello era l'inferno. La Terra lo è o, meglio, la gente che la popola. Io non volevo più vivere nella paura, non volevo più vivere in un posto dove le persone ti giudicano e ti odiano. Io volevo solo andarmene; in silenzio o no, volevo farlo con Austin.

Era muto; stava pensando a cosa dire. Vedevo quasi il suo cervello lavorare come un matto per trovare le cose giuste da dire, senza toccare tasti dolenti. Passò quasi un minuto dove io guardavo l'asfalto freddo e rovinato della strada, mentre lui mi guardava negli occhi, cercando di non crollare; poi iniziò.

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