Capitolo I

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C'era un tempo in cui la Terra di Mezzo viveva nella più totale pace. Uomini, Elfi, Hobbit, Nani, avevano ben poco in comune in effetti: razze diverse, stili di vita differenti, eppure condividevano il territorio in armonia ed equilibrio, ognuno occupandosi dei propri affari.
La terra germogliava, madre caritatevole, per sfamare i suoi figli adorati, che la rispettavano e veneravano, proprio come il supremo creatore, Eru Iluvatar, aveva stabilito all'origine di tutti i tempi.
E così, infatti, sarebbe dovuto andare fino alla fine del mondo.
Ma tra i grandi e potenti Valar, che avevano sempre amministrato quella perfetta serenità tra le creature terrene, a cui loro stessi avevano concesso il respiro, la superbia cominció presto a serpeggiare. Il desiderio di potere si impadronì di Morgoth, ad oggi conosciuto dai più come l'Oscuro Signore.
Il figlio prediletto di Eru, così, insorse contro il suo stesso padre nel tentativo di spodestarlo dal trono di Arda e prendere il controllo, ma venne sconfitto e, dopo questo, punito, perdendo l'abilità di plasmare nuova vita dal nulla, come avevano sempre fatto i suoi stessi fratelli.
Ma questo non bastó a fermare la sua brama di conquista.
Attraverso la menzogna e l'inganno, infatti, inizió ad instillare pensieri malvagi nei popoli che abitavano la Terra di Mezzo, manipoló le loro menti e impregnó i loro animi di pensieri immondi, disturbanti, proibiti.
Presto la corruzione da lui seminata riuscì ad impadronirsi delle creature più pure e sensibili che i Valar avevano generato, gli Elfi. Una nuova razza fu rigettata dalle profondità più recondite del sottosuolo. Erano umanoidi abbietti, feroci, crudeli e deformi: i figli di Morgoth, gli Orchi.
Alla guida del loro capo, essi cominciarono a sterminare tutti gli esseri che incrociavano sul loro cammino.
La guerra, mai conosciuta sino ad allora sul pianeta, imperversó aspra e impietosa.
E anche quando lo stesso Morgoth venne fermato, i suoi servi ed alleati continuarono ad estendere morte, distruzione e dolore, ovunque.
Gli Orchi vennero allora addestrati e riorganizzati. Divennero armi assetate di sangue e carne.
Solo un regno sterile e desolato avrebbe potuto accogliere quelle mostruosità. Fu così che nacque Mordor, nero, vile, proprio come i suoi stessi abitanti, con le sue fucine sempre gravide di continui orrori.
Tutto sembrava perduto per sempre. L'epoca d'oro stava per tramontare, quando, dopo anni di conflitti, un'inaspettata rivelazione rinfoderó le difese degli eserciti bianchi.
Galadriel, Signora di Lorien e membro dell'Alto Consiglio, così parló:

"Quando la magia, a lungo sopita, si risveglierà nel Regno degli Uomini, la fine sarà vicina. Le sorti del mondo, allora, verranno affidate alle mani dei più impensabili e curiosi. Tra questi vi sarà un Elfo, nato dalla stirpe di Oropher, e figlio del re Thranduil. Ad attenderci vi saranno notti più scure di queste e giorni molto meno splendenti di quelli che abbiamo conosciuto in passato. Ma anche la persona più piccola potrà essere in grado di cambiare le sorti del nostro futuro. Non perdete la fiducia."

Era la seconda Era.
Le speranze di tutti erano alle stelle.
Ma sopraggiunse anche la terza, e nulla ancora era cambiato.
Coi sentimenti incupiti, furono in molti a finire per arrendersi alla cruda realtà. Gli Dei li avevano abbandonati al loro destino e tutti attendevano solo la morte... La meno dolorosa che si potesse sperare, quantomeno.

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Rohan, la Terra dei Cavalli, delimitata a Nord dalla foresta di Fangorn e a Sud dai Monti Bianchi, era una distesa infinita di erba, su pianure rigogliose e ondulate dal vento.
"Mare Verde", così la chiamavano i suoi abitanti, osservando la sua intera estensione e come essa si inerpicava sempre più su, verso le vette più alte, ancora marroni durante l'autunno, ma che si sarebbero imbiancate presto con l'imminente inverno; e poi in basso, giù, verso il fiume, nella foltezza degli abeti che finivano per affacciarsi sulle sponde dell'Anduin.
A rimirare la loro imponente maestosità, riflessa sullo specchio di acqua cristallina, si trovava un piccolo villaggio di uomini.
Le case di legno, molte con i comignoli accessi, date le temperature in forte abbassamento, non erano distinguibili le une dalle altre, se non dall'osservazione dei tetti. Chi poteva permetterselo, infatti, stava sostituendo le coperture in paglia, con mattoni grezzi. Si sarebbero evitati alcuni incendi e, magari, anche qualche vita in più sarebbe stata risparmiata, nonostante il cibo non fosse mai abbastanza, a causa dei periodi di carestia sempre più lunghi.
Nulla a che vedere certo con gli alti torrioni delle fortezze della vicina Edoras, popolata dai sovrani e da coloro che potevano rivendicare una discendenza, più o meno lontana che fosse, reale.
Nel villaggio di Simenor, non c'era nessuno che sfoggiava abiti ben fatti o gioielli scintillanti per le strade; non c'erano i divertimenti della corte, nè lo sfarzo degli edifici o delle piazze acciotolate.
No.
C'era solo polvere e fango, legna accatastata ai lati dei sentieri, aghi di pino e sporco, dappertutto.
Pellicce ispide, di lupo o di orso, riparavano la pelle dalle intemperie e sassolini raccolti da terra, per essere intagliati a mano, erano gli unici ciondoli e pegni considerati preziosi.
Dal fronte di battaglia, peró, le notizie che giungevano erano ovunque le stesse. E nel compiangere i propri cari, caduti valorosamente, le differenze tra i Simenoriani e i cittadini della capitale, venivano abbattute, giorno dopo giorno, battaglia dopo battaglia.
Il partorire un figlio maschio veniva quasi visto come una sorta di maledizione, ormai. La madre che lo cullava e lo nutriva, viveva con quella costante e sventurata certezza che sarebbe morto in campo, tra dolorose agonie. Il compimento dei ventisei anni era temuto da tutte: i ragazzi che abbandonavano le loro case, povere ma sicure, difficilmente avrebbero fatto ritorno dalla guerra. I più fortunati che vi riuscivano, erano irrimediabilmente cambiati fisicamente, avendo perso, spesso e volentieri, almeno un arto, o peggio mentalmente, avendo perso il senno.
Così rifletteva Faya, mentre guardava da lontano il giovane Aro che abbracciava stretto il padre traballante, sull'unica gamba intatta che era riuscito a riportare a casa dal fronte.
"Sì, papà. Torneró. Te lo prometto!"
"Ti voglio bene, figliolo."
Queste furono le uniche parole comprensibili che Faya riuscì a carpire mentre passava, con l'arco e le frecce in spalla, accanto al bagaglio stracolmo di beni di prima necessità del ragazzo. Ebbe così modo di rinnovargli buona fortuna, prima di proseguire il suo cammino in direzione dell'Anduin.
Le provviste a casa della nonna erano finite; era giorno di caccia, il suo preferito nella settimana. Mentre fuoriusciva dai confini del villaggio, inoltrandosi tra gli alberi, pensava a come fosse possibile che lei e la nonna avessero potuto finire tutta la carne dell'ultima battuta nel giro di soli dieci giorni. Eppure si ricordava perfettamente di essere arrivata carica di selvaggina, tanto da crollare a terra, sfinita, sulle assi di legno scricchiolanti del pavimento della cucina, dopo aver fatto uno sforzo immane per trascinare tutto su per le scale.
Che ne aveva fatto nonna Melil di tutto quel ben di Dio?
E come faceva la vedova Phenrir, ora che ci pensava, ad avere quattro quaglie appese sulla balaustra, se non andava a caccia? E le quaglie che aveva catturato lei, perchè non erano più sbucate fuori, tra i piatti che aveva mangiato in quegli ultimi giorni?
Le venne da ridere alla conclusione di quelle idee e, mentre saliva sul tronco di un albero di vedetta, un soffio di vento le scompiglió i capelli neri corvini. Erano lunghi, folti, e lei ne andava molto fiera, ma aveva dimenticato da anni quale fosse la sensazione di tenerli sciolti e liberi di scompigliarsi. Per praticità, una lunga treccia li teneva stretti, domati e il più possibile puliti. Aveva cominciato a legarli intorno ai quindici anni quando, nonostante fossero difficili da gestire a causa dei costi a dir poco proibitivi dei saponi che erano diventati beni di lusso da quelle parti, era corsa via dalle lame affilate delle forbici della nonna. La donna aveva cercato per un pó di inseguirla per le strade pur di raggiungerla, ma era stata costretta a desistere poco dopo, avendola completamente persa di vista.
Fu così che i ragazzi del villaggio scoprirono quella strana macchia rossa che aveva sin dalla nascita sul lato destro del suo collo.
Una minima imperfezione sulla sua pelle candida come la neve, ma che diventava subito gigantesca agli occhi dei bambini, parecchio malevoli, di quella età.
"Che voglie insoddisfatte aveva tua mamma, quando sei nata? Eh, Faya?"
Se non ricordava male, era stato proprio Aro a lanciarle il primo sasso sulla testa, quella volta, e a pronunciare quella parola orrenda, "STREGA! STREGA!".
Non passó molto, prima che gli altri lo imitassero.
"Sapete? Parla pure con gli animali! Deve essere per forza una Strega!"
Ma non era nulla vero.
Fedor, il suo falcone, aveva un'ala spezzata quando si era imbattuto in lui, alle radici stesse dell'arbusto, tra i cui rami si trovava adesso, appollaiata e in attesa. Lo aveva portato a casa, curato e poi lasciato libero di andarsene, almeno lui che poteva, ovunque volesse. Ma l'animale le si era affezionato e tornava spesso da lei, planando dall'alto, dritto dritto sulla sua spalla, portando di frequente con sè regali di ringraziamento: ora era un topo, ora uno scarafaggio, oppure un piccolo pettirosso.
Tutti... Inevitabilmente... Morti...
"Grazie Fedor! Ma basta così! Non devi!", gli disse lei un mattino, all'arrivo della nuova carcassa fresca fresca di giornata, che le era stata offerta gentilmente tra le mani, dal suo becco giallo e arcuato.
Lui la guardó, storse un pó la testa, sbattè un attimo gli occhi e, poi, rivoló via. Da allora non ci furono più regali.
Sembró che avesse capito, in un modo, quantomeno, o nell'altro.
E ora, eccolo arrivare, puntuale come al solito, mentre Faya stava uscendo dalla sua casacca un sacchetto di fanghiglia, pronto per l'uso.
"Buongiorno Fedor! Che notizie mi porti oggi? Hai visto qualche coniglio nelle vicinanze? O qualche gallina selvatica? Non sarebbe male un bel brodo di pollo per pranzo. Che ne dici?"
Fedor la guardó, storse un pó la testa, sbattè per un attimo gli occhi, come faceva sempre, e poi aprì ripetutamente le ali, staccando qualche penna dal suo piumaggio, che si libró prontamente nell'aria.
Faya lo conosceva bene.
Era nervoso e quella sembrava proprio una domanda.
"Tranquillo!", gli rispose, "È in ritardo ma starà sicuramente arrivando"
In quello stesso momento un tubare di tortora si sentì provenire da giù, proprio in mezzo alle sterpaglie.
Faya non trovó strano quel verso e vi rispose di rimando con lo stesso tono.
Un rumore veloce di foglie calpestate e di rami spezzati in avvicinamento, preannunció la presenza, poco lontana, di Eschiel.

Thranduil's ProphecyWhere stories live. Discover now