Capitolo XXVIII

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La mattina seguente Faya trovò dei vestiti ad attenderla nella stanza.
Era una divisa.
Limir ne stava indossando una uguale, formato miniatura rispetto alla sua.
La giovane trovò la cosa divertente.
"Che c'è?! Solo tu riesci ad avere un valido motivo per essere felice, appena sveglia. Lo dicevo io che eri matta!", la rimbrottò la nana.
Poi si avviarono alla mensa, a rifocillarsi.
La ragazza rimaneva costantemente allibita ogni qualvolta la guardava azzannare qualsiasi cosa le capitasse a tiro, con una voracità degna del più affamato predatore.
"Non stare impalata, Faya! Mangia!"
"Sono sazia. Tranquilla!"
"Non è sufficiente. Hai bisogno di energie per l'allenamento. Becchi come fossi un uccellino! Prendi carne, uova... Tutto!", la spronava, mettendole le pietanze in bella vista, l'una di fianco all'altra.
Poi, d'improvviso, ruggì.
"BERSAK! Porta dell'altro! Abbiamo fame! Veloce!"
Fu un nano panciuto a farsi largo tra i tavoli e le sedie, spintonando chiunque incontrasse sul suo cammino e sollevando un gran baccano. Trasportava due alte colonne di piatti pieni zeppi di leccornie, e incedeva alla cieca, facendosi guidare solo dalle lamentele di coloro che venivano investiti al suo passaggio, a destra e poi a sinistra.
Arrivato a destinazione posò il pesante carico, o meglio lo abbattè sulla mensa, provocando un grande tonfo.
Lei, così, potè vederlo meglio in volto, per la prima volta.
Due morbide guance rosse, naso a patata e un lungo pizzetto scuro, strettamente intrecciato, che quasi toccava terra, dondolando avanti e indietro, a qualsiasi suo movimento.
"Ogni tuo desiderio è un ordine, tesoro!", proruppe lui, sorridente.
"TESORO?", gridò Limir, contrariata.
"Tesoro?!", ripetè Faya, meravigliata.
"Oh, mia adorata! Quando cesserà la tua immotivata ritrosia! Non essere timida. Un bacio, per la mia bravura? Puoi anche darmelo, no?"
Per tutta risposta, il poveretto si beccò un manrovescio dritto in faccia, cadendo di schiena per terra.
Le risa e il frastuono riempirono la sala.
"Stammi lontano! E non chiamarmi mai più in questo modo! Hai capito, Bersak?"
Lui si sollevò, massaggiandosi il dolore con una mano paffuta a salsicciotto, e l'espressione sognante, nel guardarla tanto inferocita.
Era una scena assurda.
"Ti amo anche io, mio fulgido firmamento"
"BERSAK! VIA DA QUI!", concluse la nana, cercando di mostrarsi incollerita, pur essendo palesemente arrossita.
Quando la quiete tornò, Faya ritrovò l'appetito.
Guardava la sua amica di sottecchi, cercando di estrapolarle qualche curiosità in più.
Ma niente.
L'altra restava impassibile.
"C'è qualcosa che dovrei sapere, Limir?", le chiese prendendo una coscia di pollo e fingendo totale disinteresse.
"Siamo in ritardo, carina! Thorin ci scuoierà vive, come lepri. Sono stupidaggini! Non ho tempo per queste cose!".
Subito si mise una pagnotta in bocca e, saltata giù dalla panca, corse via.
Faya si affrettò a seguirla.

Il campo d'addestramento era un enorme spiazzo interno, tutto polvere e fanghiglia.
Su un palco laterale si trovava già Thorin, insieme ad altri due Nani dall'aspetto tutt'altro che amichevole.
Le due ragazze si avvicinarono per salutare.
"Cugino..."
"Limir..."
Ma a Faya non venne rivolto nemmeno lo sguardo, figuriamoci un benvenuto.
Inizio promettente...
Non c'è che dire...
Erano le uniche donne, in quel posto. Ma come lei presto si accorse, nessuno sembrava curarsene. Nei combattimenti corpo a corpo, non c'era alcuno dei presenti che mostrava di avere un occhio di riguardo per la sua amica, ad esempio.
Pugni sul viso, calci sull'addome, gomitate violente in pieno petto, venivano inferte senza alcuna pietà, sotto la supervisione attenta di Thorin che parlava poco, se non per dare ordini.
L'allenamento proseguì ininterrotamente per otto estenuanti ore.
Tra un osso rotto e denti spezzati, ognuno tornava a schierarsi pronto per il commiato, alla fine.
Rimasta ad osservarli in silenzio, per tutto quel tempo, Faya non si era nemmeno accorta dei minuti che passavano, completamente assorbita com'era dalla loro forza, abilità nella lotta e ferocia nello scontrarsi, come se si trovassero di fronte un vero orco, e non un compagno con cui avrebbero condiviso un pasto, seduti allo stesso tavolo, appena poco dopo.
"È il tuo turno, Umana"
Quella frase la fece ridestare dai suoi pensieri, improvvisamente.
Era stato Thorin a chiamarla.
"Sì!", rispose lei, camminando verso il centro.
"Vediamo che sai fare. Dimostrami che non sei solo una perdita di tempo e che hai del potenziale su cui poter lavorare. Limir! Sarai tu a fronteggiarla!"
La ragazza tirò un sospiro di sollievo.
La sua amica ci sarebbe andata un pò più leggera con lei, anche se dai suoi occhi indiavolati, nulla faceva presagire che quella deduzione fosse corretta.
"In posizione!", disse lui.
Faya imitò l'assetto della nana, che si stava sputando nel frattempo sul palmo delle mani, mostrando, fiera, nocche già completamente scorticate e livide.
Non sapeva proprio da dove cominciare, in effetti, ma non si lasciò intimidire.
"Du-Bekâr!"
Quando ancora lei si stava chiedendo che cosa quelle parole intendessero, Limir l'aveva già raggiunta assestandole un violentissimo colpo in pancia.
Finì in ginocchio sul terriccio. Sapore di sangue in bocca e respiro affannato.
"In piedi!"
Cercò di farlo, ma altre percosse la fecero accasciare di nuovo sul suolo.
"Troppo lenta!"
Sino a quando, alle botte successive dirette alla schiena, alle coste, alle reni, smise del tutto di reagire.
"Non sai nemmeno come usare il tuo corpo... Cosa ci fa qui, una come te? Non possiedi alcuna qualità: nè resistenza nanica, nè agilità elfica. Mi chiedo che devo farne io, di te... Spiegami, Umana! Ti ascolto! Non sei fatta per questo luogo... Spero di avertelo appena dimostrato. Non saprei come altro spiegartelo, altrimenti. Tornatene da dove sei venuta, e sparisci!"
Sanguinante e dolorante, lei non si mosse.
Thorin ordinò alla cugina di allontanarsi, senza aiutarla.
La nana obbedì, bisbigliandole appena di essere spiacente per l'accaduto.
Rimase carponi, distrutta.
Le tenebre calarono spesse, sul cielo terso illuminato dalle stelle, e i rumori della notte si fecero più distinti.
Sentì passi in avvicinamento, allora.
Avevano un andamento zoppicante.
Se ne spaventò e per proteggersi da un altro assalto, si rannicchiò, nascondendosi il viso tra le ginocchia.
Ma l'attacco, tardava ad arrivare.
"Siete tornato a picchiarmi? Ancora? Siete un vigliacco, e niente di più! Mi fate pena!"
"Devi nutrirti adesso, ragazza. E riscaldarti, o gelerai. C'è molto freddo di questi tempi. Prendi una coperta. Coraggio!"
Era una voce sconosciuta.
Lei tentò di alzarsi.
Si trovò dinanzi un nano calvo, con un occhio bendato, naso rotto e mascella con incisivi sporgenti, proiettata in avanti. Il suo braccio destro era percorso da una bruttissima cicatrice e quel procedere altalenante era dettato dalla presenza di una gamba di legno, alla sua sinistra.
Sembrava essersi scontrato più volte con la morte ed esserle, chissà come, sorprendentemente sopravvissuto.
Le sembianze non promettevano niente di buono. Tuttavia, le aveva portato dell'acqua per rinfrescarsi e una ciotola di brodo fumante.
"Il mio nome è Pamfil. Quando te la senti, rientriamo"

La Sala dei banchetti era un macello di urla e baldoria. Tutti si abbracciavano divertiti, assolutamente dimentichi di quello che era appena successo, e delle batoste che si erano scambiati a vicenda.
Faya si mise a mangiare lontano dalla ressa, accompagnata da quel nuovo conoscente.
Alle luci dell'interno, si accorse che doveva avere l'età di Thrain, il padre di Thorin.
Ma non aveva voglia di porgli ulteriori domande. Non nella stato attuale, in cui si trovava.
Si limitò a studiare ciò che di sano in lui rimaneva, mentre sollevava la scodella per bere, tra un sorso e l'altro.
Pamfil se ne accorse.
"Freccia di un orchetto", disse, indicandosi l'occhio cieco.
"Morso di un Mannaro", continuò, puntando il dito verso un'impronta sulla spalla.
"Trappole Goblin", proseguì, riferendosi al solco sull'arto superiore.
"Amputazione dopo avvelenamento da lama Morgul. Un tempo, non c'erano le conoscenze di oggi. E si andava a sentimento, per così dire... Ma che ne potete sapere, voi giovinastri!", concluse, toccandosi il polpaccio mancante.
"Per tutti gli Dei! Come l'ha ridotta, quel disgraziato di Thorin. Rimettiti in sesto, bambina mia. Gliene dirò quattro a quel debosciato di mio nipote. Non doveva proprio trattarti, in questo modo. Come si permette!"
Fu una bellissima signora a parlarle, questa volta. Se la ritrovò di fianco, con le mani alla bocca, e gli occhi in lacrime.
Faya era parecchio confusa.
"E questa è Caletheia, la mia splendida mogliettina. Penso che le presentazioni per oggi siano abbastanza. Non è davvero stupenda?"
"Sei sempre il solito, tu! Vi preparo qualche altra cosa, piuttosto. Torno subito".
La donna aveva biondi capelli ricci e occhi chiari. Sembrava una bambola.
I due formavano una coppia stranamente assortita, a primo impatto, ma si intuiva subito che c'era un grande sentimento ad unirli di base, rimasto saldo anche dopo tante complicazioni.
"Ha un cuore gigantesco. Ci siamo conosciuti ai Colli Ferrosi. Io venivo da Khazad-dûm. Ero ai primi anni di leva e mi ritrovai davanti questo incanto. Ero un bel ragazzone anche io, un tempo, ma non credevo di poter essere notato da lei. Eppure, passandomi vicino, fece cadere un fazzoletto con le sue iniziali, invitandomi a raccoglierlo, sbattendo le ciglia. Quando glielo restituii, mi scoccò un bacio in guancia e sgattaiolò via... Chiesi ovunque di lei. Ero impazzito! Seppi successivamente che fosse di stirpe reale e che abitasse ad Erebor. Quattordicesima nipote del terzo figlio, del cugino di secondo grado, da parte di moglie, del fratello del padre di Thorin... Durin si chiamava... Hai capito?"
La ragazza, che si era persa al primo bivio dell'albero genealogico, ebbe l'ardire di annuire. In verità, non sapeva nemmeno a chi stesse facendo riferimento con quell'ultimo nome, tra la miriade di gente che aveva appena elencato.
Si stava sentendo meglio, però.
Quell'uomo riusciva a distrarla dai recenti avvenimenti, con un pizzico di ironia.
Al polso, portava un braccialetto d'argento con un ciondolo di quarzo rosa.
Faya non potè impedirsi di notarlo, restando a fissarlo più a lungo del normale.
"Vuoi sapere perchè lo porto?"
"Solo se vorrete. Non disturbatevi, altrimenti..."
"Sei molto ben educata, Faya. Ma qui, solo al Re si rivolgono tali ossequi. Noi altri siamo tutti imparentati. Nessuna formalità, te ne prego"
"D'accordo, Pamfil..."
Lui le sorrise, a suo modo.
Ne risultò più un ghigno bonario, alla fine. Le parve simpatico, ciò nonostante.
"Apparteneva a nostra figlia. È morta quando aveva appena cinque anni. La guerra mi ha privato di molte cose... Ma sono niente a confronto..."
"Non volevo rattristarti. Perdonami"
"Oh, ma lei è sempre con noi. Non ci ha mai lasciati. Non devi preoccuparti, cara", si intromise Caletheia a quel punto, portando maiale e carote lesse.
"Come si chiamava?"
"MELIL", risposero entrambi.
La ragazza trattenne delle improvvise lacrime in arrivo a quella scoperta, talmente incontrollabili da lasciarla imbarazzata.
"Scusatemi..."
"Abbiamo perso tutti qualcuno di importante, bambina. Non c'è alcuna vergogna nel mostrare le proprie fragilità..."
"Ha lo stesso nome di mia nonna. Non so che fine abbia fatto... Ero molto legata a lei"
"Magari un giorno la rincontrerai... Sii fiduciosa... Adesso, però, vado a sgridare quella disgraziata!"
Faya si girò di colpo, vedendola partire, inviperita, verso una meta imprecisata.
"Limir! Scendi subito i piedi dalla tovaglia! Quante volte ti ho detto di imparare a comportarti meglio. Non sono modi da gentil donna, questi! Mi farai impazzire! Devo ripeterti sempre le stesse cose!"
"Per me è già perfetta così, Caletheia! Suvvia! Esageri!", le disse Bersak, a tutela della sua amata.
"Stai zitto, zuccone! Mi so difendere benissimo da sola!"
La ragazza si ritrovò a sorridere.
Dopotutto, le sembrava davvero di trovarsi in famiglia, finalmente.
"Faya, avanti! Vieni anche tu, qui! Ci si diverte!"

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