Capitolo 60

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9 Mo'gh Ahkoth 1842 – luogo imprecisato

Ak'uira si svegliò all'alba intontito, dormire in quelle condizioni lo aveva provato e il freddo non aveva smesso di morderlo. Ora che il sole era alto, notò alcuni caratteri incisi sul fondo della pietra del suo rifugio; non erano di Haksh, quindi li abbandonò a sé stessi mentre delle perle di umidità scivolavano verso il basso.

Alzandosi, vide più chiaramente la distruzione del temporale, non gli era mai capitato di assistere a uno spettacolo del genere. A essersi spezzati furono solo gli alberi più duri ed esperti, avendo creduto che la spessa corteccia li avrebbe protetti. Le chiome frondose vennero spogliate brutalmente delle numerose foglie, scaraventate a casaccio come carta straccia. Ciò che restava di quei pachidermi arborei erano solo degli scheletri di legno, immobili e con delle mani arcigne a bloccare ogni passaggio. Le ultime energie rimaste si consumarono nel dolore al fusto per delle rocce che impedirono il tonfo al suolo lasciando la loro morte sospesa e la loro dignità sfilacciata. Ak'uira comprese di essere fuori dalla Bozanj e che tutto era completamente diverso: il clima, il cielo, gli odori, gli animali.

Fissò quell'immagine nella sua mente e si chiese cosa stesse succedendo al mondo. Non capiva perché ci fosse quella grande differenza tra Haksh e quell'inferno; interruppe subito quei pensieri, la fame iniziava a essere insistente.

Passò la giornata a cercare frutta o qualsiasi cosa potesse essere commestibile all'interno di quel bosco dilaniato, ma rimediò solo alcune more prese dai rovi: aveva visto dei piccoli fringuelli scossi cibarsene poco prima e li ringraziò. Aveva ancora molta fame, voleva del pesce, ma si rifiutò di pescarlo davanti alle aquile. Lo avrebbe catturato come loro, non come un resh be'th. O per lo meno, era quello che auspicava.

A fine giornata si sentì stanco fisicamente e mentalmente, desiderò di tornare a casa. Pensò anche di mollare tutto, il maturamento, il combattimento; immaginò una vita tranquilla dove gli avrebbero presentato un'altra aquila, l'avrebbe sposata e avrebbe lavorato di fianco al padre.

Forse è questo il mio destino.

Per un breve momento lo credette davvero mentre, accovacciato a terra, fissava un punto indefinito.

Appena pensò a suo padre, all'immensa stima che provava per lui e di come l'otzi lo rendesse speciale, si sentì perso. Era a un punto morto e decisivo, in quei giorni avrebbe definito che tipo di resh be'th sarebbe diventato.

Una fiammella di speranza si accese nei suoi occhi, ma una folata di vento, che serpeggiava come un'ombra tra gli alberi che aveva ucciso, gli fece ricordare l'incidente. Le gambe iniziarono a tremare e si fiondò, con le poche forze che aveva, nel rifugio. Si rannicchiò e per la rabbia sbatté i pugni sulla roccia fino a farli sanguinare: anche quel giorno finì così, sconfitto da sé stesso e dalla fame.

Si addormentò pensando a un modo per vincere la sua paura in maniera graduale e pregò disperato che il vento non ci fosse stato. Quella notte non fece freddo come la precedente, ma dormì comunque molto poco interrotto dai gorgoglii interni, simili a terremoti. Era il secondo giorno ormai che viveva immerso in quella natura inospitale.

Al risveglio, era riuscito a conservare un po' della determinazione della notte appena trascorsa e si decise a intraprendere un lungo percorso di adattamento. Pensò di avvicinarsi alla scogliera lentamente; se aveva difficoltà poteva sdraiarsi e proseguire strisciando, come era successo durante il temporale: così fece.

Aveva molta paura per le suggestioni che si accavallarono nella sua mente, e la presa nelle mani era ancorata al suolo a tratti fangoso; nulla lo avrebbe spostato da dove si trovava. Fece dei respiri profondi e cercò di avanzare da quella posizione comodamente fastidiosa.

I figli dei SamathWhere stories live. Discover now