Capitolo Quarantotto

Start from the beginning
                                    

I suoi capelli erano più lunghi di come Rozsalia li ricordava dalle ultime volte in cui lo aveva sognato, ma era anche vero che era ancora attaccata all'immagine di lui che risaliva ormai a due anni addietro.

La cascata di lisci biondi ormai raggiungeva la metà della sua schiena, e la sua figura sembrava più fragile, le sue gambe più secche. E quando Rozsalia lo guardò in volto, si accorse che anch'esso era più smunto. E i suoi occhi, di quel caldo colore del miele, erano l'unica traccia di quell'uomo che la portarono a esclamare il suo nome, e ad abbracciarlo.

«Rozsa,» Solean chiamò il suo nome, la sua voce leggera, come se parlare gli costasse un'immensa fatica. «Sei qui. Sei vicina, ormai.» sospirò, stringendola a sé con tutta la forza che aveva, la forza di un bambino.

Rozsalia si staccò lievemente dall'abbraccio, e fece per allontanarsi, per sedersi sulla sedia di fronte a lui, quando Solean le fece cenno di sedersi sulle sue gambe.

La giovane esitò, temendo che si sarebbero spezzate come ramoscelli secchi.

«Sono qui.» disse lei, sorridendo, «Arriverò oggi stesso, lo prometto.»

«È un peccato.» sospirò Solean.

Rozsalia ebbe un colpo al cuore, e alzò lo sguardo, cercando gli occhi di lui, che erano fissi sulla sua figura, mentre le sue mani percorrevano lentamente la curva della sua schiena. «Che cosa intendi dire?» domandò la giovane, preoccupata.

«È tardi.» disse Solean, «Solo un poco troppo tardi.» continuò, mentre ora aveva preso a passare una mano tra i suoi capelli, giocando con quel rosso, affascinato da esso come lo sarebbe stato di poter toccare il fuoco senza scottarsi.

«Come sarebbe a dire? Il nostro destino è di stare insieme. E sono qui, con te, ora.» disse Rozsalia, cercando una speranza che Solean stava violentemente strappando via dalle sue mani, perché affrontasse la realtà, e la guardasse negli occhi.

«Che ore sono, Rozsa?» domandò Solean, apparentemente cambiando discorso.

La ragazza non capì il motivo di quella domanda, tanto più perché si trovavano in un sogno, ma andò comunque alla ricerca di un qualche orologio, e ne trovò uno a pendolo, alla parete di fronte a sé.

Il vuoto tra un ticchettio e l'altro sembrava durare molto più di un secondo. Sembrava un intero minuto. Sembrava un'ora. Sembrava l'eternità.

«Le quattro del pomeriggio.» balbettò lei, insicura, non capendo dove Solean volesse arrivare, fino all'ultimo.

«È giorno, Rozsalia. E questo è un sogno.» disse Solean.

Rozsalia indietreggiò, rendendosi conto di ciò che sia l'aspetto che la voce di Solean significassero, insieme alla sua aria sconsolata.

Solean si alzò dalla sedia, massaggiandosi la tempia sinistra. Ma non erano i suoi soliti capogiri. Rozsalia lo capì. I ricordi non avevano nulla a che fare con quel dolore.

«Mi sento come se fossi rimasto solo, chiuso qui dentro.» disse Solean, facendo cenno alla stanza, attorno a sé. «Questo è il salotto delle mie stanze, qui al Palazzo di Noomadel.» spiegò, «Ma so che non è reale. Non c'è nessuno. E poi, posso arrivare fino in camera, posso scendere le scale, ma dopo solo qualche gradino, ho come questa sensazione...» tentò di farle capire, «La sensazione che non dovrei essere lì.»

Si fermò sui suoi passi, mentre aveva cominciato a camminare avanti e indietro, per la lunghezza del tavolo di legno, posando la mano sullo schienale di ogni sedia, accarezzandole una ad una. «Questo non è reale.» disse Solean. «Tu ne sei la prova.» la indicò.

«Io?» Rozsalia si portò entrambe le mani al petto, e lo guardò con occhi persi e ingenui, come se si sentisse accusata di un qualche crimine.

«So che non è reale.» riprese a dire Solean, serio, «Da ieri sera non ho mangiato, non ho bevuto, non ho dormito, non ho incontrato nessuno, e ora tu sei entrata da quella porta come se niente fosse!»

EmberWhere stories live. Discover now