CAPITOLO 32

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"Mi dispiace signorina, ma a causa dello shock e della caduta a terra c'è stato uno stacco della placenta e il bambino non ce l'ha fatta".
Tre ore. Tre ore che Simona guarda il soffitto e quelle parole le girano in testa. Rimbombano nella mente e le sembra ancora di sentire la voce dell'infermiera ripetergliele senza sosta.
È sola nella stanza, ha cacciato via tutti, persino Niccolò. Ma sa che lui e tutti gli altri sono fuori dalla stanza ad aspettare che la dimettano.
Sono troppe le cose a cui Simona deve pensare e fissare il soffitto da tre ore non la sta aiutando.
Di nuovo si è chiusa in sé stessa, ha alzato quelle pareti maledette che la tengono lontana da chi le vuole bene e vuole aiutarla, come Niccolò.
Si accarezza la pancia e sente le guance inondate di lacrime e sta singhiozzando da tre ore e non riesce a smettere. Ha perso suo figlio.
A chi può dare la colpa? A sé stessa per aver deciso di andare da sua madre? No, la colpa è di quel bastardo del padre di Federica. Simona aveva saputo, poco dopo essersi svegliata, che lo avevano catturato grazie alle impronte sulla pistola lasciato a casa della mamma di Simona e che gli era stato dato l'ergastolo. Questo però non aveva sollevato nemmeno un po' Simona perché nessuno le avrebbe ridato suo figlio. Sente un vuoto tremendo nel petto, a tratti le sembra di non riuscire a respirare. E le fanno male le ossa per il pianto disperato e dei singhiozzi. Aveva pianto come una pazza per la prima ora, poi lentamente si era calmata e aveva continuato a far scorrere miliardi di lacrime sulle guance e sul collo, lacrime che stanno ancora scendendo a miliardi dai suoi occhi. Perché? Stava andando tutto bene. Aveva il lavoro dei suoi sogni, un ragazzo immensamente innamorato di lei e di cui lei era follemente innamorata, amici meravigliosi a farle da spalla e sempre pronti a farla ridere ed invece no, tutto è crollato con una bolla che scoppia al tocco o un vaso di cristallo che si sbriciola. C'è qualcuno che non vuole vederla felice? Ha perso suo figlio. Ogni cosa che tocca muore. Sua madre, suo figlio. Ma perché? Che cosa ha fatto di male? Merita davvero tutto questo dolore? Forse sì, stava andando tutto troppo bene. Sua mamma. Ha visto sua madre morire davanti ai suoi occhi e sa che avrà incubi per notti intere e mesi e mesi. Per un attimo le passano in mente tutti i bei ricordi dei suoi primi anni di vita con sua madre e lentamente le tornano in mente anche le litigate, le sfuriate fino agli ultimi incontri che c'erano stati. Sente un tremendo senso di colpa. Pensa di essere stata lei la causa della morte di sua madre, ma sa che non è così. Lei che colpa ne ha? Come poteva sapere che Tommaso fosse quel genere di persona? Forse doveva accorgersene? Ma come avrebbe fatto? E la cosa che più le fa male è non aver chiarito con sua madre perché, anche se magari non avrebbero ripreso un rapporto pacifico, almeno si sarebbe tolta un peso dal petto. Ed invece ora non può più farlo. Un altro singhiozzo fortissimo la scuote ed è costretta a chiudere gli occhi mentre stringe in due strettissimi pugni le lenzuola. La cosa che la solleva, anche se in modo lievissimo, è che Tommaso sia stato incarcerato: almeno sua madre potrà avere giustizia, anche se non sarà più su questo mondo.
«Scusa mamma. Ti voglio bene, anche se eri una stronza» mormora tra i singhiozzi, sentendo le lacrime finirle in bocca. Ingioia il groppo in gola e poi porta una mano sulla pancia. Accarezza proprio lì, dove fino al giorno prima c'era suo figlio. Non riesce a guardare la pancia, solo ad accarezzarla, ma quando la sfiora sente un dolore immenso oltre che nella pancia, anche nel cuore. Ha perso il bambino e ogni tanto ha ancora delle piccole perdite di sangue e sente che ad ogni goccia di sangue che esce dal suo corpo, la sua anima e la sua voglia di vivere se ne vanno via con lei. Ha interrotto una gravidanza, ha messo fine ad una bellissima famiglia che poteva nascere. Come può dimenticare le passeggiate serali, quando lei e Niccolò, a Villa Borghese o sul Lungo Tevere, mano nella mano, facevano progetti sulla cameretta del bimbo, sul nome, su chi gli avrebbe insegnato ad andare in bici? Come poteva dimenticare i baci, le carezze che Niccolò lasciava alla sua pancia? O le parole che Niccolò rivolgeva alla sua pancia, parlando con loro figlio?
Ce la farà a sopportare tutto questo? Ad andare avanti? Sa perfettamente che ha tutto il sostegno delle persona intorno, ma non riesce a pensare positivo ora, vorrebbe solo chiudere gli occhi e risvegliarsi da questo incubo o addirittura non risvegliarsi più.
Come è possibile provare un dolore tanto grande per la perdita di una creatura che non è ancora nata? E umanamente sopportabile? È come se una parte di lei, del suo corpo e della sua anima si fosse staccata e l'avesse abbandonata.
Porta una mano ad asciugare le lacrime, ma è inutile perché continuando ad uscire a milioni. Fissa sempre il soffitto e l'immagine di Niccolò le appare davanti agli occhi.
Lo ricorda benissimo. Quando si era risvegliata in ospedale, quella mattina presto, lo aveva trovato con la testa poggiata sul letto accanto a lei, a stringerle una mano. Le era rimasto accanto tutta la notte e quando Simona si era svegliata lo aveva guardato con amore, prima che il ricordo di tutto ciò che era successo la facesse sobbalzare e così aveva svegliato anche Niccolò.
A Simona era bastato lo sguardo che Niccolò le aveva rivolto dopo averla baciata e averle dato il buongiorno, per capire che c'era qualcosa che non andava. Gli occhi di Niccolò era cupi e in un anno ed un mese di relazione, Simona non li aveva mai visti così tristi. Si era istintivamente portata una mano alla pancia e aveva spalancato gli occhi perché, non sapeva come, si era sentita vuota. Allora aveva guardato Niccolò che le aveva afferrato la mano nelle proprie e se l'era portata alla bocca. Simona aveva spalancato gli occhi talmente tanto che li aveva sentito bruciare e poi aveva iniziato a scuotere la testa con violenza, guardando gli occhi di Niccolò per cercare un appiglio, per cercare quella luce che l'aveva sempre spronata ad andare avanti, per cercare l'anima di quel ragazzo che era sempre stato la sua ancora, per cercare una risposta che la tranquillizzasse. Ma non era arrivato nulla di tutto quello. Anzi, Niccolò l'aveva guardata e Simona era rimasta paralizzata quando lo aveva visto scoppiare a piangere e singhiozzare con violenza all'improvviso. Simona lo aveva continuato a guardare e non era nemmeno riuscita a parlare; solo un flebile «No...» era uscito dalla sua bocca immobilizzata prima che l'infermiera entrasse e le spiegasse che aveva perso il bambino.
Il pianto disperato di Niccolò le aveva messo i brividi e le rimbombava nelle orecchie. Non lo aveva mai visto piangere così, come se avesse perso tutto. E dopo i primi minuti di silenzio di Simona per cercare di metabolizzare le parole dell'infermiera, si era sollevata di scatto per mettersi seduta e aveva sottratto la propria mano da quella di Niccolò per infilarla tra i capelli e gridare a squarciagola tutto il dolore che sentiva crescere dentro.
«No! No! No! Cazzo!» urlava senza sosta tanto che l'infermiera era tornata con un sedativo, ma Niccolò, cercando di calmarsi, l'aveva rimandata indietro, alzandosi dalla sedia e sedendosi accanto a Simona. Quest'ultima era talmente fuori di sé che aveva le mani nei capelli e se li tirava, gridando e piangendo mentre Niccolò cercava di abbracciarla. Simona però non capiva più nulla e aveva iniziato a gridargli contro, a prenderlo a pugni sul petto mentre Niccolò, imperterrito, si era seduto alla bell'e meglio accanto a Simona e l'aveva portata contro il suo petto, baciandole i capelli sciolti. Simona aveva premuto la bocca contro il petto di Niccolò e aveva gridato fino a perdere la voce, per poi stringere tra i punti la sua maglietta e zupparli di lacrime. Anche Niccolò singhiozzava, ma accarezzava la schiena di Simona per farle forza.
Dopo mezz'ora passata in silenzio, abbracciati, Simona lo aveva mandato via e non aveva voluto nemmeno vedere i suoi amici fermi, mesti, sulla soglia della porta.
Ed ora sono passate tre ore e lei è ancora là a fissare il soffitto e a pensare a tutto e a niente. Le sembra tutto così surreale, tutto così assurdo perché possa accadere a lei.
Entra la stessa infermiera che le aveva dato la notizia terribile e la informa che nel pomeriggio sarebbe stata dimessa e che c'erano tutti i suoi amici fuori dalla porta. Simona aveva gridato talmente tanto che aveva finito la voce, ma se anche l'avesse avuta, non aveva la forza per parlare. L'infermiera, come se avesse capito l'antifona, se ne va senza aspettare una risposta.
Ma prima che possa uscire dalla porta, «Era maschio o femmina?» domanda Simona facendo un'ora forzo immenso, con voce apatica e rauca, fissando il soffitto con le lacrime secche sulle guance.
L'infermiera si ferma e si gira e Simona non la vede, ma sa che ha uno sguardo compassionevole misto a quello professionale. La ragazza sospira e poi «Maschio, sarebbe stato un maschio» le risponde con tono mesto perché, sì, è un'infermiera, ma è pur sempre un essere umano e detto questo esce silenziosamente dalla stanza.
Simona sorride amaramente e «Maschio» ripete tra sé e sé, prima di scoppiare nuovamente a piangere nel pensare che Niccolò aveva vinto la scommessa che avevano fatto un mese prima e lei come penitenza avrebbe dovuto cucinare la cena per un mese intero.




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