Al di là della nebbia

Da Damianomostacci

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Vincent Price è un detective dell' FBI incaricato di indagare su una serie di efferrati delitti che ha sconvo... Altro

Capitolo uno
Capitolo due
Capitolo tre
Capitolo quattro
Capitolo cinque
Capitolo sei
Capitolo sette
Capitolo otto
Capitolo nove
Capitolo dieci
Capitolo undici
Capitolo dodici
Capitolo tredici
Capitolo quattordici
Capitolo quindici

Capitolo zero

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Da Damianomostacci


«Papà, papà, guarda!»

Una bambina puntava il suo indice minuto verso il cielo. Sopra di lei si ergevano maestose le conifere della foresta, che parevano sorreggere la volta celeste. Un debole sole si posava sull'erba verde e sui licheni. Ma non furono le conifere né il sole a rubare l'attenzione della piccola. Il padre alzò lo sguardo, mentre un falco volteggiava sopra le loro teste. La bambina osservava con occhi pieni di stupore i cerchi concentrici che il volatile eseguiva nell'aria con grande maestria.

«Quello è un falco, tesoro. Che animale magnifico!»

L'uccello continuava a girare in tondo, senza distogliere lo sguardo dai due. Le sue iridi, lucenti e impenetrabili, riflettevano l'immagine del padre e della figlia, come uno specchio maledetto. Dopodiché l'incanto svanì, il falco ruppe il cerchio e volò via. Era la prima volta che la bambina ne vedeva uno. A New York non c'era nulla di simile e né le immagini dei libri né la televisione potevano compensare l'esperienza di trovarsi faccia a faccia con un animale vero. Ora però la piccola si girò, in cerca di qualcos'altro. Allungava il collo, prima in una direzione, poi in un'altra, cercando di distinguere tra le macchie verdi, ma niente. Poi qualcuno sbucò da dietro gli alberi. La bambina rivide finalmente sua madre e tirò un sospiro di sollievo. Le corse incontro, ansiosa di rivelarle l'incredibile avvistamento che aveva fatto. Era una donna alta e longilinea, con degli splendidi capelli neri come il corvo, leggermente mossi e gli occhi di un grigio perla penetrante. Sua figlia aveva ereditato da lei il nasino aggraziato e la fronte un po' sporgente, mentre dal padre aveva preso il colore castano degli occhi e dei capelli. Lui un impiegato d'ufficio, lei un'infermiera. Avevano deciso di prendersi una lunga vacanza dopo diversi anni costretti a passare le estati nel soffocante tessuto urbano della metropoli; in parte per i debiti accumulatisi, che finalmente erano riusciti a pagare; in parte per il lavoro precario di lui. Fino a quando, due anni prima, era stato assunto a tempo indeterminato, con un ottimo stipendio da impiegato. Una favola a lieto fine, insomma.

Ora dalla Grande Mela avevano deciso di allontanarsi dalla civiltà, dal caos degli ingorghi stradali, dal groviglio di incroci e semafori, per recuperare parte di quel contatto originale, primitivo con la terra. E cosa meglio dei boschi di conifere che circondano Silver Lake? Ovviamente l'esistenza di una così piccola città non era minimamente contemplata. Fu un cartello a ridosso del lago omonimo a suggerire alla famiglia l'idea di visitarla. Un nome che evoca immagini suggestive.

 Man mano che il fuoristrada saliva, un verde incontaminato e smeraldino si espandeva sotto i loro occhi. La bambina, con la faccia schiacciata sul finestrino, ammirava estasiata lo spettacolo ancestrale del mondo. Ma ciò che senz'altro conferiva un'aura magica a quel posto era il lago, incastonato al centro della vallata come un diamante in un drappo verde. La sua superficie, rischiarata dai raggi del sole che penetrava dalla coltre di nubi grigie, era qualcosa di profondamente aulico.

Ad un primo sguardo il paese apparve subito come una landa desolata, o una fotografia sbiadita. Quel genere di città in cui nessuno si fermerebbe di proposito, se non per una gomma forata o un motel in cui passare la notte. Strade ampie e vuote, semafori spenti e qualche auto lasciata a morire a ridosso dei marciapiedi. Le poche persone che si incontravano in giro, per lo più vecchi, al loro passaggio fissavano i tre forestieri con lo stesso sguardo con cui si guarderebbe un elefante in mezzo a una strada. Ma questo senso di solitudine in fondo era proprio ciò che essi cercavano. Decidendo così di passare la notte lì, si fermarono all' Hotel Rose, un albergo dall'aspetto modesto e dai prezzi onesti. L'inserviente alla reception, un ragazzo alto con un finto sorriso stampato sulla faccia, non poté però nascondere lo stupore nel vedere dei clienti. In uno stato di strana euforia mista a un certo trattenuto contegno, diede al capofamiglia un'energica stretta di mano. Dopodiché tirò fuori da sotto il bancone l'elenco dei visitatori, impolverato e dalle pagine ingiallite come i denti di un vecchio fumatore.

«Dunque starete qui solo una notte?»

«In realtà non abbiamo ancora deciso. L'intenzione è quella di rimanere nelle vicinanze per una settimana, ma può darsi che ci sposteremo per visitare altre zone limitrofe.» Ovviamente in questo era insito il fatto di tastare il terreno, che finora era apparso alquanto squallido.

«D'accordo. Il suo nome, prego?»

«Jonathan.»

 Dopo aver sistemato i bagagli, aver fatto la doccia ed essersi cambiati, Jonathan suggerì a sua moglie di andare a cena fuori. L'albergo aveva in realtà una sala ristoro al piano terra, a sinistra della reception. Ma quando la cuoca era entrata per un momento nella hall, Jonathan, con un occhio sul camice untuoso della donna e l'altro sullo spiraglio della porta, che dava su una sala spartana e misera, aveva concluso che il mangiare doveva essere proprio come il resto dell'albergo. Inoltre Ellen, sua moglie, aveva espresso più volte il desiderio di fare una camminata, per scaricare a terra tutte le ore passate immobile in macchina. Uscirono dunque a sera inoltrata e camminarono per le silenziose vie di Silver Lake, finché non videro un'insegna poco illuminata che titolava "La Tana del Gufo": un locale dalla facciata scura e austera, che emanava però una calda luce all'interno. Appena varcata la soglia d'ingresso furono avvolti da un clima di bevute e musica country. In breve gli uomini alzarono gli occhi vacui dalle birre e dalle tette delle cameriere, e le donne smisero di sparlare. Tutti gli sguardi erano rivolti a quella nuova famiglia che per chissà quale ragione era capitata nella loro tranquilla cittadina.

Ed ora era calato il silenzio.

Una cameriera giovane si avvicinò ai tre, salutandoli con cortesia e professionalità. Poi si allontanò un momento e sussurrò qualcosa all'orecchio di un signore seduto da solo in un angolo, con cui probabilmente aveva una certa confidenza. Un cliente abituale, si disse Jonathan. L'uomo si alzò bofonchiando ma sapeva di stare occupando il tavolo da ormai tre ore senza aver ordinato nient'altro all'infuori di una birra media, e perciò non disse nulla. Dopodiché la ragazza invitò la famiglia a sedersi a quel tavolo, e i clienti ripresero a parlare come prima.

Il menù era piuttosto povero in varietà ma in compenso facevano degli hamburger deliziosi, e Jonathan si sorprese nel constatare che anche la birra era di ottima qualità, forte e speziata. Gli ricordò il suo soggiorno in Germania, quand'era ragazzo. E mentre bevve un altro sorso, guardò sua moglie, Ellen. I capelli ed il viso erano contornati dal chiarore del focolare, e sorrideva. "Quant'è bella", pensò. In tutti quegli anni aveva mantenuto la stessa compostezza a tavola di quando si erano conosciuti, nonostante lui, più rude nei modi e meno attento al galateo, avesse involontariamente fatto tutto ciò che poteva per demotivarla dal continuare. Ma era meglio così. Ognuno deve completare l'altro con la sua parte più bella, non certo con quella più grezza. E sicuramente in proporzione a guadagnarci era stato più lui che lei, pensò divertito. Certe volte si chiedeva come aveva potuto una ragazza come lei amare uno come lui. Prima cheerleader del college, con una fila di pretendenti che sgranavano gli occhi al suo passaggio da far paura. Bella, e, stranamente per il suo ambiente, intelligente. Ma queste qualità, seppur notevoli, non sarebbero state sufficienti a far scaturire in Jonathan la scintilla. Ne aveva conosciute parecchie di donne così, ed erano quasi sempre altezzose. Ciò che lo colpì profondamente fu la sua modestia di fondo. Non era una che se la tirava, non guardava dall'alto in basso coloro che venivano etichettati come "nerd" o "sfigati". Al contrario provava piacere a parlare con loro; a parte quando discutevano animatamente su chi, tra Hulk e La Cosa, fosse il più forte, o quanto fosse valida la teoria dei buchi neri di Hawking sull'origine dell'universo. Certe volte ascoltava, divertita, ma senza ridere di loro. E questa era certamente la qualità che rendeva tutte le sue altre doti più attraenti. Così un tardo pomeriggio, quando tutti uscivano dalla scuola, Jonathan le si avvicinò e, con impacciata timidezza, tentò di approcciare una conversazione con lei. E ci riuscì. Parlava, non sentendo quasi il suono della propria voce, tanto era concentrato su ciò che doveva dire. E lei, con la tipica attenzione divertita che rivolgeva a chi tentava goffamente di combinare qualcosa, ascoltava. A Jonathan non parve vero. "La ragazza che mi piace, la più ambita della scuola, sta camminando insieme a me mentre le parlo", pensò. "E sembra pure interessata a ciò che sto dicendo."

Col passare dei giorni quei brevi momenti di felicità si ripeterono in maniera abbastanza costante. Non duravano un granché, solo qualche minuto prima di salutarsi e tornare ognuno alla propria vita. Eppure piccoli frammenti come quelli bastavano a rendere un po' più caldo il suo cuore. E a volte aveva la sensazione che lei se ne accorgesse, e allora non sapeva se sentirsi grato o mortificato, come un mendicante che riceve pochi spiccioli filtrati dalla pietà.

Finché un giorno lei non gli chiese di accompagnarla a casa a piedi.

Camminarono e parlarono a lungo, e per la prima volta egli ebbe l'opportunità di conoscere qualcosa del suo passato. Non era più la ragazza con cui scambiare due parole all'uscita della scuola. Era una persona, con una storia e delle convinzioni profonde. Nei giorni successivi le passeggiate continuarono, e Jonathan era meravigliato che da una ragazza così giovane potessero uscire pensieri e idee di notevole maturità. A volte parlavano di una situazione di attualità, altre di religione, di scuola, di musica o di libri. Qualche volta Jonathan aveva il timore di non essere all'altezza della conversazione trattata, ma lei, come se lo intuisse, riusciva sempre a farlo sentire a suo agio, anche negli argomenti più impegnati.

In poco tempo la bellezza superficiale lasciò il posto a dei sentimenti più consistenti.

 Ora Jonathan osservava Ellen mangiare, poi rivolse lo sguardo a sua figlia. Due angeli scesi in terra. Ellen distolse gli occhi dal piatto e lo guardò. Arrossì leggermente e diede un altro morso al panino. I suoi occhi gli confermarono ancora una volta di aver fatto la scelta migliore della sua vita.

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