Middle Ground Chronicles - SE...

By alesstar

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✨VOLUME 1 - Saga del Middle Ground - autoconclusivo -- -- Chi sarebbe tanto sprovveduto da preferire a una n... More

ambientazione, personaggi e storyline
1 . Tu chi sei?
2 - Sensi di colpa
3 - So cosa fare
4 - Un favore personale
5 - Binario 10
6 - L'antidoto Rosa
7 - La barriera elettromagnetica
8 - La convocazione
9 - In trappola
10 - Potenza della mente
11 - Eldorado
12 - Evasione
13 - Vadis
14 - Scoperte
15 - A caccia
16 - Io ti conosco!
17 - Somnum Nunc!
18 - Codice infranto
20 - Nemici o amici?
21 - Una donna bellissima
22 - Lui viene con noi
23 - Una lite di coppia
24 - Ti rubo un bacio
25 - Verità sconcertanti (parte 1)
26 - Verità sconcertanti (parte 2)
27 - Maledetto figlio della fortuna
28 - Ti svelo un segreto
29 - Enigma
30 - Ragione o Sentimento
31 - Morire per lei
- RICAPITOLIAMO -
32 - Noi eravamo
33 - La Promessa
34 - Universi Sommersi
35 - La Caverna di Platone

19 - Strane usanze, strane conoscenze

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By alesstar

Selina 16

-9 giorni al Middle Ground


Mi dimeno con le mani legate, mentre uno di loro mi spinge avanti, e sbotto: «Dovete liberarmi!»

Vogliono bendarmi, parlano di impedire che io studi la strada che ci condurrà al loro distretto nella zona sud. Dicono ancora che potrei essere una spia. Che il luogo a cui siamo diretti è segreto e che una Crescente non deve sapere. Ma sapere cosa, esattamente? E che senso ha portarmi qui se hanno paura che io scopra qualcosa che deve restare nascosto?

«Perché hai detto bentornata?» urlo verso Natan, in testa alla fila. «Bentornata a casa, perché?»

Non si volta ma vedo che alza le spalle e seguita a marciare indifferente.

«Rispondi, Reminiscente, perché bentornata?»

Senza voltarsi dice: «Hai capito male, ho detto benvenuta.»

«Bugiardo! So cosa ho sentito.»

Natan mi arriva di fianco e mi osserva con le sopracciglia corrugate e un sorriso obliquo di diffidenza.

«Lasciami andare. Non sono una spia. Sono un'evasa diretta a Ingranaggio» gli ripeto.

«E il bugiardo sarei io?» mi schernisce. «Dovrei credere che una scienziata che è cresciuta privilegiata tra i Crescenti nella zona più ricca di Pangea sia evasa per andare a morire tra gli Operanti a Ingranaggio?»

«Non ho detto che ci sto andando per morire.»

«E perché ci vuoi andare?»

«Non sono affari tuoi, liberami e basta!»

«O me lo spieghi, o resti con noi, ragazzina.»

«Ma non vedi la mia faccia?» sibilo esasperata.

Ora sorride di nuovo, ma stavolta in modo aperto. «La vedo sì, la tua faccia. Bella bocca» la osserva con attenzione, «che prima mi ha quasi baciato e poi mi ha tradito consegnandomi al più letale cacciatore di vite di Pangea».

Possibile che nessuno presti attenzione alle schegge metalliche che affollano la mia pelle?

«Ma per tua sfortuna, Crescente» aggiunge divertito, «sono stato più veloce di lui e l'ho ucciso.»

«Smetti di ripeterlo!»

Si adombra di nuovo.

Poi sussurra impunito: «L'ho ucciso.»

«Smettila!»

Ridacchia e cantilena: «Ucciso, l'ho ucciso, ucciso» e ride.

«Smettila, stupido!»

«Fattene una ragione, il tuo amore è morto» allunga il passo e mi supera.

Il mio amore?

Due di loro mi arrivano in faccia con una benda e in un attimo vedo nero.

#

Quando finalmente vengo sbendata una lama di luce mi ferisce gli occhi costringendomi a stringerli. Poco alla volta metto a fuoco un luogo più buio delle tenebre in cui sono stata cieca finora. La torcia elettrica che uno di loro mi ha puntato sugli occhi si spegne consegnandomi alla semioscurità.

«Cos'è questo posto?» domando voltandomi intorno.

Accanto a me non c'è più nessuno.

«Dove siete finiti?» chiamo spaventata.

Una luce fioca si accende alla mia destra, in fondo, proiettata da una porta di ferro che si è aperta ai piedi di una parete di cemento plumbeo. Una parete altissima e molto lunga che scompare nell'oscurità senza rivelare la fine. Sulla porta c'è una ragazza che mi chiama con la mano. Ma prima di interessarmi a lei, la mia attenzione è catturata dalle parole che sono state dipinte sul grande muro.

"Or tu chi se', che vuo' a scranna,
per giudicar di lungi mille miglia
con la
corta d'una spanna?"

Non so di che linguaggio si tratti e concludo tra me che gli abitanti di Vadis nel tempo, reietti ed esclusi, possano aver creato un loro codice di comunicazione.

«Vieni o no?» chiama spazientita la ragazza sulla porta.

La raggiungo con passo lento, per concedermi il tempo di studiarla e comprenderne le intenzioni. Ha un fisico poco più robusto e più alto del mio ma il suo è un viso famigliare, esattamente come quello di Natan. Non capisco: perché tra questa gente non mi sento in pericolo e ho l'impressione costante di conoscerli? Vorrei non avere questo problema di memoria, magari scoprirei che li ho incontrati nei laboratori durante gli esperimenti sui loro ricordi, e finalmente avrei chiara la loro missione... vendicarsi di me.

Quando ormai le sono a un passo, allunga la mano verso di me: «Io sono Selina 11, piacere di conoscerti Selina 16».

Fisso la sua mano e non la stringo, sto ancora elaborando lo sconcerto. «Ma... le altre Selina sono tutte...»

«Tutte di Pangea City?» sorride. «Ce ne sono anche a Vadis» aggiunge scrollando le spalle. Con la stessa mano che non ho stretto indica la porta e fa strada. «Prego, omonima, accomodati.»

«Dove siamo?»

«A casa mia» mi precede all'interno di una grande sala con soffitti altissimi e mura colme di scritte un po' come quella che ho letto sull'entrata. L'ambiente è poco illuminato e non riesco a leggere tutto ma mi sembra di essere finita dentro a un gigantesco cubo di parole che fluttuano. Al centro di questo posto ipnotico e affollato di voci senz'audio, noto un grande divano a sei posti imbottito e ricoperto di trapunte colorate con accanto un tavolo basso e di mogano zeppo di fogli impilati, alcuni radunati e altri sparpagliati.

«Sei una filologa, una linguista storica... cosa sei?» domando sconvolta.

La sento ridere di gusto, e in questo ambiente la sua risata risuona potente.

«Cosa ha detto di così divertente la nostra ospite?» sento dietro di me. «Finora è stata di una noia mortale, non dirmi che ha ritrovato il senso dell'umorismo».

Mi volto a osservare Natan comparso dall'oscurità e in avanzamento verso di noi. Si è cambiato, ora indossa un pantalone e una maglia leggera. E davvero vorrei toccarlo per capire di che materiali siano fatti quei vestiti, non ne ho mai visti di così colorati e aderenti. Forse lo fa per mettere in risalto un fisico molto prestante, oppure per proteggerlo, ripensandoci potrebbe trattarsi di una guaina schermata.

«Ti sei incantata, Crescente?» mi arriva a un passo e agita una mano davanti al mio viso.

Mi fingo infastidita dalla sua battuta e ne approfitto per spingerlo indietro toccando la sua maglia col palmo. Ma non ho sentito nessun elemento di protezione.

«Di cosa sei vestito?» chiedo e la faccio finita.

Si osserva ridendo con le sopracciglia sollevate e le dita che tirano la maglia. «Di cotone e jeans, dottoressa di laboratorio che non hai mai visto un paio di jeans» gira su sé stesso facendo lo spavaldo.

«Cotone? Quello che usiamo per detergere e disinfettare? E jeans... sarebbe?»

Ora la sua giravolta si blocca e la sua espressione si adombra. Cambia voce, come fosse improvvisamente arrabbiato: «Basta, sono stufo. Cambiati quel camice, dobbiamo andare al pub, sto morendo di fame.» Si volta per andarsene e dice di spalle: «Mia cugina ti ha trovato qualcosa da mettere, fai in fretta, ti aspettiamo qua fuori.»

Osservo Selina 11 e domando senza pensarci: «Cosa significa cugina, sei la sua compagna per la riproduzione?».

Di nuovo scoppia a ridere.

Ma perché questa qua non fa che ridere alle mie domande?

Allunga verso di me una veste lunga e morbida e anche stavolta non so decifrarne il tessuto.

«Prima che tu lo chieda» ridacchia come se mi trovasse davvero patetica, «questa è fatta di seta e organza. E ti prego, infilalo senza pretendere dettagli sull'origine della seta, faremmo notte.»

Glielo strappo di mano e le riservo uno sguardo stizzito: «Si può sapere perché lui può mettere cotone e jeans e io devo mettere questa specie di veste post-operatoria?»

Resta a fissarmi con la bocca semiaperta per un lungo momento, poi, ovviamente scoppia di nuovo a ridere.

«Dovresti essere grata di indossare la roba che proviene dalla risacca, piccola ignorante. E ora molla lo zaino che porti sulle spalle, non puoi entrare al Pub con quello addosso» lo indica.

Subito m'irrigidisco: «Non se ne parla, qui dentro c'è tutto quello che mi resta» e che mi serve per salvare i miei amici. «E che cosa sarebbe la risacca?»

Ignora la domanda e diventa perentoria. «Al ritorno dalla cena potrai riprenderlo, non preoccuparti, qui siamo tutto meno che ladri.»

«Ti credo, ma non ho intenzione...»

Si avvicina e mi osserva stizzita: «Rischi il linciaggio se vieni scoperta» afferra un lembo dello zaino e rivolge verso di me la tasca frontale su cui è cucito il simbolo dei Crescenti. Maledizione, devo decidermi a strappare quel dannato simbolo.

«E va bene» me lo sfilo dalle spalle, «ma non frugarci dentro.» Una parte di me è sicura che se trovasse all'interno dello zaino le mie ricerche e le formule che ho studiato per portarle ai genetisti di Ingranaggio, le sarebbe impossibile interpretarle, per cui soccombo.

«Fai in fretta» si volta e si dirige verso un divisorio che nasconde un angolo cieco. «Cambiati qui dietro e lascia qui il tuo zaino» e poi si allontana col passo svelto di chi ha deciso che sei una causa persa.

«Voglio ritrovarlo, ti avverto!» le urlo dietro. «E voglio sapere cos'è la risacca!»

Se n'è andata. Inghiottita dalle parole che fluttuano sulla parete dietro cui è svanita. Mi fisso la veste nelle mani. Stoffa interessante, l'avvicino al viso, fresca e liscia. Ma veste ridicola. Non la metterò. Sgattaiolo dietro al divisorio e noto con sollievo che su una sedia sono impilati più abiti. Senza badare troppo alla taglia e ai colori ne agguanto alcuni a caso e scelgo la maglia che infilerò al posto del camice. I miei pantaloni li tengo, non ho intenzione di andare in giro con le gambe esposte, sarebbe scomodo per una fuga e potrei avere freddo.

Pochi minuti dopo esco di qui e finisco di nuovo nel buio a fissare le parole incomprensibili che spiccano disegnate sul muro esterno. Sono così concentrata a cercare di tradurle che non mi accorgo di essere stata circondata.

«Va tutto bene, Flavia?» domanda Francesco.

«Non si chiama Flavia, non hai sentito il capo?» lo corregge il ragazzo con i capelli ricci.

«Fa lo stesso» interviene il più piccolo tra loro, «tanto sarà il capo a darle un nuovo nome.»

Stavolta insorgo: «Nessuno mi darà nessun nuovo nome!»

«Calmati, Crescente, la rabbia non ti si addice» Natan compare davanti a me col ghigno divertito, e con due dita mi sfiora il viso. «Con un faccino tanto grazioso dovresti sorridere di più.» Poi abbassa lo sguardo sul mio abbigliamento e s'incupisce. «Che fine ha fatto il vestito che ti avevo fatto preparare?»

Gli scanso la mano con un gesto di stizza. «Se non ti dispiace, io quella veste ospedaliera non la metto.»

«Ospedaliera? Quella è la sottoveste di Ofelia!»

«Di chi?» lo fisso corrucciata. «E cosa sarebbe una sottoveste? E che cos'è la risacca?»

Perde il ghigno e mi fissa torvo per un lungo momento. Questo ragazzo ha la capacità di cambiare umore in modo tanto repentino quanto inquietante.

«Muoviamoci» ordina.

L'intero gruppo inizia a marciare in silenzio e a spingere me per farmi accelerare il passo.

«Dove mi state portando?»

«Te l'ho già detto» Natan mi prende sottobraccio. «Al pub.»

Tento di dimenarmi e lui stringe la presa.

«Si può sapere cos'è Pub?»

Ora ridono tutti. Si spintonano, mi imitano, fanno il verso alla mia voce ripetendo la domanda che ho appena fatto.

Natan parla loro col tono annoiato ma deciso: «Basta, fatela finita». E come per incanto smettono all'istante di ridacchiare e tornano a marciare in silenzio.

«Perché ti obbediscono?» domando provocatoria, ancora intenta a cercare liberarmi dalla sua presa irremovibile.

«Si chiama rispetto, dottoressa. Nel tuo distretto esistono solo coercizione e manipolazione, ma qui abbiamo imparato a rispettarci.»

«So cos'è il rispetto» lo strattono inutilmente, «e se tu fossi rispettoso come dici, non mi terresti prigioniera.»

Il suo profilo s'inclina verso un sorriso torbido e senza guardarmi sussurra: «In questo caso il rispetto non c'entra.»

«Giusto. E... già che siamo in argomento, cosa vuoi da me e perché mi hai inseguita fin qui da Pangea?»

Stavolta indirizza su di me un'espressione indecifrabile che proprio non riesco a leggere, ma so che mi ha ghiacciato il sangue.

Raggiungiamo l'entrata di una specie di mensa disordinata con i tavoli sparsi a casaccio in una sala fumosa e affollata e in cui tutti si parlano uno sull'altro e odorano di alcol.

«Questo sarebbe Pub?» tiro indietro il suo braccio per impedirgli di trascinarmi dentro.

Natan si volta a parlarmi a un centimetro dalla bocca: «Ascoltami bene, adesso, dottoressa. Se questi si accorgono che sei una Crescente, neanche io sarò in grado di evitarti la tortura, per cui ora resta accanto a me, se ci riesci sperimenta un sorriso e tienilo in faccia fino alla fine, evita di fare congetture assurde e sforzati di sembrare una di noi.»

La mia gola si contrae tre volte prima che io riesca a formulare una domanda senza apparire terrorizzata: «Perché mi hai portata qui se è così rischioso?».

Mi spinge avanti e scuote la testa in un sorriso da canaglia: «A differenza di voi geni precoci cresciuti nella City, noi vadisiani non abbiamo navette viveri che ci portano il cibo agli alloggi, questo è il solo posto dove si può consumare un pasto e io ho fame.»

Ricevuto.

In poco mi ritrovo seduta a un vecchio tavolo di legno davanti a boccali di vetro grossi come gli alambicchi per gli esperimenti e colmi fino all'orlo di liquido che odora di alcol, ma deve trattarsi di un intruglio sintetico. I ragazzi ordinano bistecche di carne e io so che non potrò chiedere verdure, per cui rifletto su cosa mangerò. Ma quando a una velocità sconcertante sette bistecche si materializzano sulla tavola, quasi lanciate da un cameriere acrobata che senza spettinarsi ha fiondato ogni portata davanti ai commensali con gesti danzanti, mio malgrado balzo in piedi sconvolta emettendo un urletto acuto. Lo so, ho commesso un errore, mezzo Pub mi sta osservando con attenzione. La mia reazione ha attirato lo sguardo di molti, qui dentro. Eppure, è più forte di me, non posso evitare di affermare sonora: «Ma questa non è carne sintetica. Sono una biologa molecolare, so cosa sto guardando e sto guardando vera carne di bovino adulto.»

Come un fulmine Natan scatta in piedi, leva in alto il boccale e urla divertito: «Alla salute! Il prossimo giro lo offro io!»

La sala scoppia in un turbinio di schiamazzi, applausi e di gente che grida parole di assenzo o di gratitudine, e nessuno fa più caso a me.

Natan abbassa il viso sul mio orecchio e sibila feroce: «Mi sei appena costata un mese di lavoro, ragazzina. Per ripagarlo dovrò scavare a mani nude giorno e notte. Un'altra parola sbagliata e non saranno loro, sarò io a torturarti.» Afferra dal suo piatto un quarto di bistecca e lo piazza nel mio. «Mangia. Se non mangi è anche peggio che se parli. Qui la gente è affamata, una inappetente desta sospetti.»

Fisso sconvolta questo pezzo di carne e sospiro allucinata: «E menomale che la coercizione e la manipolazione si trovano nel mio distretto. A me pare che qui abbiate un po' troppe regole...»

«Non sono regole, assurda donna ignara, sono abitudini. E ora metti in bocca un pezzo di carne, così finalmente taci.»

Depongo le armi col broncio infantile e non la smetto di osservare questa carne. Non ho mai mangiato un animale vero. Una parte di me è curiosa di scoprire che sapore abbia, ma la parte analitica di me vuole prima scoprire come sia possibile che questa gente abbia accesso a cibo non sintetico.

A un tratto la mano di Natan che stringe un lembo di carne strappata mi arriva sulle labbra. «Apri» dice torvo. «Prima che te lo infili in gola con la forza, apri questa bocca. Non ho i soldi per proporre un altro giro di birra, e questi hanno ricominciato a fissarti.»

Strizzo gli occhi e apro piano la bocca, e Natan, senza nessuna delicatezza, mi spinge la carne sulla lingua e ritrae la mano. Poi allaccia un braccio intorno al mio collo e con l'altro solleva il boccale, lo piazza davanti al mio viso facendocelo sparire dietro, e sussurra vicino al mio orecchio. «Mastica, muoviti. E sorridi, maledizione. Ce l'avrai, un sorriso, nel repertorio. Non possono essere solo facce da cane bastonato o da funerale le tue.»

Col boccone ancora fermo sul palato bofonchio: «Che significa funerale? Non l'ho mai sentita».

Alza gli occhi al cielo e finge di ridere annuendo verso gli avventori, come per condividere con loro il divertimento.

Io intanto inizio a masticare per evitare il soffocamento, e mentre lo faccio, mi eccito. Non avevo mai assaggiato niente di più inebriante. Detesto l'idea di mangiare un essere vivente, mi fa sentire una via di mezzo tra colpevole e depravata, ma questa carne è davvero afrodisiaca.

Senza rendermene conto, volto lo sguardo su Natan e, a un palmo di distanza, con occhi sgranati e sopracciglia sollevate sfodero un sorrido largo e incantato dalla sorpresa.

I suoi occhi curiosi scrutano il mio viso e sorridono di rimando. «Lo sapevo» mi sfiora il sorriso, «così felice sei bellissima» dice nel fiato.

Per l'imbarazzo, il sorriso ebete mi muore in faccia all'istante.

Natan si adombra subito. «Come non detto. Ecco di nuovo il cane bastonato al funerale.»

«Come le conosci tutte queste strane espressioni e parole?» lo provoco, «le hai imparate scavando a mani nude?»

Mi strizza l'occhio. «Non hai idea di quanto ci sei andata vicino.»

Alle sue spalle arriva di corsa un ragazzo alto e sottile che, nell'affanno, si china sull'orecchio di Natan per dirgli qualcosa che lo fa scattare in piedi all'istante, come se al posto suo ora ci fosse un soldato.

Ordina deciso: «Cena finita. Navicella in sorvolo sul distretto, hanno ignorato il divieto. Armiamoci.»

I suoi si alzano sincronici, mentre la mano di Natan arpiona il mio polso: «In piedi, ragazza, il tuo amico è venuto a prenderti. Vieni a vedere come lo elimino.»

Mi rincuora appurare che Morgan sia ancora vivo, anche se non ne ho mai dubitato, sono anni che persone ben più pericolose di Natan cercano di fargli la pelle e lui l'ha sempre spuntata senza nemmeno spettinarsi. Ma mi preoccupa la seconda parte della frase. Mentre Natan mi trascina fuori, tirandomi per il braccio, non posso fare a meno di schernirlo: «A quanto pare non lo hai ucciso».

Natan emette un verso di dissenso e senza voltarsi a guardarmi borbotta: «Lo ammetto, in un corpo a corpo con quel colosso addestrato ho poche possibilità di cavarmela, infatti là sotto mi ha lasciato andare. Ma adesso eliminarlo sarà un gioco da ragazzi.»

Mi stranisco all'istante e tiro indietro la sua mano che non molla la presa sul mio braccio, mentre domando: «Scusa, che cosa intendi dire, esattamente?».

Marciamo in rapidità fino a raggiungere un campo aperto alle spalle degli edifici abitati.

Natan si ferma e col sorriso sprezzante indica un armamentario in fibra di vetro dotato di mirino telescopico e telecamera a infrarosso piazzato in mezzo a una spianata. Riconosco questo genere di arma, sono usate dai nostri controllori di Gate a difesa del perimetro della City. Come fanno ad averne una? L'avranno rubata? E come?

«Cannone laser della quarta guerra mondiale» dichiara fiero.

Battuta che genera nella mia mente almeno una decina di domande che, tuttavia, non ho il tempo di formulare. Natan ha mollato il mio braccio e con i ragazzi si è diretto all'arma gigantesca piazzata al centro di questa radura desertica. Nel buio della notte, riesco a vedere solo sagome appena illuminate da torce che si adoperano per muovere quel cannone levandolo verso l'alto, puntato al cielo. Alzo lo sguardo, e le tenebre sono improvvisamente rischiarate da una navicella in avvicinamento che pulsa luci intermittenti e squarcia il vento producendo un rombo di tuono sempre più potente. In un attimo realizzo che su quella navetta deve esserci Morgan.

Corro verso Natan urlando: «Non farlo! Non abbatterlo! Sei impazzito!»

Tre ragazzi mi arrivano addosso per bloccarmi. Mi dimeno contro di loro, e urlo ancora verso Natan che adesso sta mirando alla navicella.

«Natan! Lui è qui per me, non vi farà del male, non ucciderlo!»

Ora il volto severo di Natan, tagliato a metà da una luce fioca, si volta nella mia direzione e riflette. Poi dice: «E tu vuoi andare via con lui?».

Io ho una missione e non andrò proprio con nessuno, ripeto a me stessa, ma non posso permettere che Morgan venga ucciso per colpa mia, già quattro persone – compresa Lauta – si sono sacrificate per me. Il mio silenzio prolungato spinge Natan a ritenerlo un tacito assenso all'eliminazione della minaccia, e subito torna a orientare il puntamento dell'arma sulla navicella in avvicinamento.

«No! Non farlo!» urlo col braccio proteso, «Fermati, ti prego!».

Il rombo di tuono svanisce di colpo e il cielo torna nero e silenzioso.

«Capo» chiama uno dei ragazzi, rivolgendosi a Natan, «la navicella è sparita.»

«Lo vedo» ringhia lui di rimando, «non sono né cieco e né sordo.»

Per un momento emetto un sospiro a occhi chiusi.

«Ma che fine ha fatto?» domanda Francesco, muovendosi nella radura col volto proteso verso il cielo immobile.

«Suppongo abbia attivato le difese elettromagnetiche, e così ora è schermato e invisibile ai radar» spiega Natan con voce ringhiosa. Subito dopo si volta verso di me e mi indica «Tutto per colpa tua. Con le tue lagne hai dato il tempo al cacciatore di localizzare il cannone e attivare le difese aeree».

Sbotto: «Come vedi avevo ragione, se avesse voluto farvi del male, oltre a schermarsi vi avrebbe anche colpito. Le navette di recupero evasori sono dotate di una suite completa di armi da difesa che avrebbero potuto silurarvi, e invece Morgan si è ritirato senza fare vittime...»

«Ma stai zitta» viene furioso verso di me, «non lo ha fatto per bontà d'animo, il segugio sapeva che se avesse colpito la radura avrebbe ammazzato anche te» mi afferra il braccio e stringe, «perché immagino che oltre a una suite di difesa, il trabiccolo bellimbusti di Pangea City abbia anche un localizzatore per la visione notturna, e di sicuro ha inquadrato il tuo bel faccino. Quindi piano B» si volta in direzione dei suoi, «portiamo questa ribelle nelle segrete dove nessun segnale potrà più rintracciarla».

«Aspetta, cosa? Le segrete? No!»

Mi trascinano in tre, e so che è impossibile liberarmi.

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