L'Angelo della Morte

By GinaPitarella

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L'Angelo della Morte è un'assassina che molti considerano immortale, vaga sulla Terra da secoli per mietere l... More

Prologo 01
Prologo 02
Prologo 03
Parte prima: Iside. Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Terza parte: la verità. Capitolo 1
Capitolo 2: i disegni dimenticati
Capitolo 3: L'incubo del passato ritorna
Capitolo 4: incubi
Capitolo 5: l'incontro con Robert
Capitolo 6: spiegazioni
Capitolo 7: l'Ordine entra in azione
Capitolo 8: un tuffo nel passato, il tradimento di Diana
Capitolo 9: la fine di Diana
Capitolo 10: la decisione di Paine
Capitolo 11: L'infanzia di Robert (prima parte)
Capitolo 12: l'infanzia di Robert (seconda parte)
Capitolo 13: L'infanzia di Robert (parte terza)
Capitolo 14: L'infanzia di Robert (quarta parte)
Capitolo 15: la prima e l'ultima
Capitolo 16: la fine di Frank
Capitolo 17: l'accordo tra Jack e Marco
Capitolo 18: un nuovo inizio
L'Angelo della Morte: Nella coltre oscura
Parte prima: Rivelazioni Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3: Nascosti ai confini del mondo
Capitolo 4: inganni
Capitolo 5: un incontro inaspettato
Capitolo 6: omicidio tra i ranghi dell'Ordine
Capitolo 7: triste verità
Capitolo 8
Capitolo 9: i nodi si sciolgono
Capitolo 10: sviamento
Capitolo 11: I tormenti di Jack
Capitolo 12: La rivalsa di Marco
Capitolo 13: l'abisso
Capitolo 14: decisioni difficili
Capitolo 15: braccati
Capitolo 16: una trappola di ricordi
Capitolo 17: confrontarsi con l'abisso
Capitolo 18: sconfitta
Capitolo 19: una vittoria per Jack
Capitolo 20: <3
Capitolo 21: fuga
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24: pulizia
Capitolo 25
Capitolo 26: vendetta
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Epilogo

Parte seconda: Paine. Capitolo 1

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By GinaPitarella


Agosto 1993

Lungo la stradina residenziale di una cittadina italiana, si ergeva un'abitazione ormai consunta dal trascorrere degli anni.

Un tempo era stata un manicomio, prima ancora la villa di un nobile. Erano poche le finestre e piccole, quasi tutte sbarrate, e non vi erano balconcini da cui affacciarsi. Il tetto spiovente pareva gravare sull'intera struttura.

Era stato abbandonato, a seguito della legge che prevedeva la chiusura di tutti i manicomi. La regione aveva venduto al miglior acquirente la struttura, un ricco imprenditore che aveva in mente di trasformarla in un condominio lussuoso.

Non aveva però fatto i conti con la credenza popolare che circondava l'edificio. Si vociferava che anni addietro, un paziente del manicomio fosse fuggito e si aggirasse ancora nei sotterranei. In molti, contagiati dalla superstizione, asserivano di essere incappati nel pazzo che di notte risaliva le fogne, e chiunque avesse la sfortuna di trovarselo di fronte, avrebbe rischiato la vita.

L'imprenditore, per convincere gli acquirenti, aveva svolto numerose ricerche e dai documenti dei medici non risultava che fosse avvenuta una fuga. Tuttavia scoprì che esistevano realmente dei condotti sotterranei, costruiti dai vecchi proprietari, una famiglia nobile caduta in disgrazia. Condotti chilometrici che portavano fuori dalla cinta vesuviana, utilizzati come via di fuga o, all'occorrenza, per far entrare illegalmente prodotti proibiti.

Quei condotti, da soli, bastavano a rendere veritiera la leggenda. L'imprenditore dovette rinunciare alla precedente idea di vendere a prezzi esorbitanti gli appartamenti, e si accontentò di acquirenti meno abbienti.

Con il passare del tempo la pazzia che per tanti anni aveva governato su quel lembo di terra, ricrebbe rigogliosa e infettò i giardini, ogni singolo ciuffo d'erba. Il grande parco rigoglioso divenne selvaggio, avvolse con le sue spire avvelenate ogni cosa. Il giardino era addormentato, morto per sempre. Gli alberi erano quasi tutti malati, soltanto i pini marittimi resistevano, la terra brulla aveva preso il posto dell'erba; le panchine offrivano solo il loro scheletro ferroso, le tavole di legno per accomodarcisi non c'erano più, sparite nel nulla. Gli insetti dominavano su tutto, non insetti nobili, ma blatte, zanzare, termiti fameliche, mosche.

Gli abitanti raramente si aggiravano nel giardino. La fatiscenza esterna non era nulla se paragonata ai corridoi e agli angusti appartamentini.

Le targhe dorate che indicavano il nome dell'occupante e il numero dell'abitazione erano corrose, e la vernice scintillante mostrava la ruggine che aveva coperto alcune lettere dei nomi. I corridoi intrecciati erano dei veri e propri labirinti per i venditori porta a porta che avevano l'ardire di intrufolarsi lì. Era impossibile uscire facilmente senza chiedere indicazione agli abitanti. Le porte d'ingresso e le finestre dovevano rimanere sempre chiuse, per evitare che i topi si intrufolassero e creassero danni ai neonati.

Quello era il regno del possibile, un perfetto estratto della città, caotica, crudele, sporca.

In uno di questi appartamentini, una bambina di appena sei anni stava dormendo profondamente nel suo lettino. La camera era troppo grande per l'arredamento scelto. Una scrivania di seconda mano era posta accanto alla finestra, interamente cosparsa di pastelli, pennarelli e fogli. La carta da parato era stata impreziosita dai disegni della bambina, piccoli capolavori di un genio in erba che un genitore amorevole avrebbe elogiato. Il lettino era posto di fronte alla finestra e da sdraiati si poteva godere delle poche stelle che l'inquinamento luminoso risparmiava. I vestitini erano raccolti in un piccolo armadio scolorito dal sole.

La bambina non si lagnava delle condizioni in cui era costretta a vivere, aveva paura della madre, Serena, del suo carattere burbero e imperioso.

Le anziane pettegole del palazzo giustificavano la donna, dicendo che fosse depressa a causa dell'abbandono del suo compagno, qualcuna diceva che potesse avere una malattia alla tiroide, che le provocava degli scombussolamenti agli ormoni. La bambina, troppo piccola per comprendere il significato delle parole degli adulti, si affidava al suo infantile spirito d'osservazione, mescolato alle paure che i bambini del palazzo le avevano trasmesso: la madre era stata morsa dal mostro pazzo dei sotterranei che di notte si aggirava nel parco.

Quella notte Serena aveva dimenticato di chiudere la finestra e una folata di vento gelido, insolita per quel periodo dell'anno, penetrò dall'apertura. Le tendine si mossero, prima lentamente, poi seguendo un moto più deciso.

Paine aprì gli occhi e guardò in direzione della finestra. Si stropicciò gli occhi e con la testa ancora assopita scese dal letto per chiuderla. Non arrivava alla maniglia e dovette utilizzare un piccolo sgabello a tre piedi. Lo trascinò, tentando di non far rumore, di non svegliare la Regina che dormiva nella camera accanto. Vi si arrampicò e chiuse la finestra. Durante l'operazione, i cardini arrugginiti stridettero. Spaventata dalla possibilità di aver svegliato sua madre, si voltò in direzione della porta e attese. Niente, nessun rumore. La Regina dormiva.

Sbadigliò  rumorosamente e si grattò i capelli mossi che le ricoprivano il capo.

"Uffì.", sbuffò. L'operazione non era terminata, avrebbe dovuto cercare per tutta la stanza, armata di torcia, un qualsiasi intruso. Se nella stanza era penetrato un topo, avrebbe dovuto svegliare la Regina dormiente e, così facendo, ne avrebbe scatenato la furia.

Meglio dormire con un topolino che con i lividi sul sederino, pensò.

Sbirciò la strada attraverso l'occhio dormiente. L'alba non era ancora spuntata e la nebbia abbracciava il fazzoletto di città che vedeva oltre il giardino, reso maggiormente lugubre dal pallore della luna.

Si affrettò a scendere dallo sgabello, stava morendo dal sonno. La sua attenzione, però, cadde su un uomo seduto sull'unica panchina sana del parco. Era totalmente avvolto dalla nebbia ed era impossibile scorgerne i tratti del viso. L'uomo, la figura vagamente umana che vedeva, alzò la testa e guardò a sua volta Paine. La bambina strizzò gli occhi, sgomenta, e li riaprì per vedere meglio. L'uomo scomparve, con un leggero sfarfallio, come se fosse stato mangiato dalla nebbia.

Paine tentò di convincersi che si trattasse di uno scherzo della stanchezza, perché un uomo non poteva svanire nel nulla...a meno che non fosse... All'orrido pensiero saltò giù dallo sgabello, per la paura aveva dimenticato di respirare. Corse in fretta a letto e si issò le coperte fin sulla testa. Nella sua mente ronzavano le mille immagini orribili che i bambini dispettosi le avevano trasmesso. Il pazzo, quell'uomo poteva essere il pazzo che si aggirava nei vecchi tunnel sotterranei. Il mostro che aveva morso sua madre, ora reclamava lei.

  Respirava affannosamente. Si coprì la bocca per bloccare il rumore e carpire ogni impercettibile fruscio, ma oltre all'eterno russare di sua madre, non udiva altro.

  Sudava per il gran caldo e le scorte d'aria, intrappolate nella piccola camera di stoffa, stavano esaurendosi. Decise di sollevare almeno un lembo del lenzuolo per permettere all'aria di entrare. Lo sollevò ma lo richiuse immediatamente. Aveva visto una mano, una mano bianca oltre quell'effimera protezione che aveva innalzato come suo rifugio. Ne era certa! Dalla finestra dimenticata aperta non era entrato un topo, era penetrato qualcosa di più orribile: un mostro, il mostro pazzo.

  Era terrorizzata, urlare per chiamare sua madre non le era possibile, se avesse emesso un solo verso, quella creatura le sarebbe saltata addosso per cibarsi delle sue carni.

  Udì un rumore, qualcosa che veniva trascinato. Trattenne il respiro e a fatica anche l'urina.

  Senza farsi notare, alzò pian piano una porzione più piccola del lenzuolo. Con l'occhio color nocciola, sbirciò la stanza. La finestra era a posto, l'armadio perfettamente chiuso, i suoi giocattoli in ordine, i mobili così come li aveva lasciati prima di addormentarsi. Si rilassò, non c'era nessuno, la paura le aveva giocato un brutto scherzo.

  Avrebbe potuto temere che 'il pazzo' si fosse nascosto sotto al letto, se solo non ci fossero state tutte le cianfrusaglie appartenenti a sua madre; oppure nell'armadio, ma era di dimensioni talmente ridotte che nemmeno lei, volendo, avrebbe potuto infilarsi per giocare a nascondino.

  Uscì dal manto caldo e sudaticcio. Guardò in ogni angolo per sicurezza, non c'era nessuno.

  Rimise la testa sul cuscino, rasserenata. La stanchezza prese il sopravvento e le palpebre le divennero pesanti. Voleva rimanere sveglia per qualche altro minuto, per avere la certezza che non ci fosse realmente nessuno.

  Richiuse gli occhi, che erano puntati sulla finestra, e l'ultima cosa che videro fu lo sgabello, era tornato al suo posto.

  I primi raggi del sole entrarono nella stanza e le illuminarono il viso. Se avesse avuto più di sei anni e maggiore esperienza della vita, si sarebbe accorta che erano appena le tre del mattino e il sole non poteva essere così alto nel cielo e, soprattutto, che la sua stanza puntava ad ovest.

  Quella che entrò dalla finestra non era la luce solare, bensì una coltre opaca, formata dalla nebbia. Si insinuò attraverso gli spiragli del legno marcio, assumendo una colorazione più scura. Volteggiò sul corpicino di Paine come un serpente sinuoso. Infine scese fino alle cavità nasali e si lasciò inspirare completamente. Appena tutta la scia scura scomparve nel suo corpo, Paine aprì gli occhi di scatto, erano diventati due perle bianche, le pupille scomparse.

  Sognò, o meglio: credé di sognare.

  Era ancora buio, però la nebbia si era diradata. Il materasso era diventato incredibilmente duro e gelido. Si mise prona sul giaciglio per trovare maggiore conforto. Il viso non incontrò il morbido e liscio cuscino, ma una superficie rugosa e maleodorante. Possibile che fosse caduta dal letto senza accorgersene?

  Aprì gli occhi e si guardò intorno, interrogativa e spaventata. Non era un letto quello su cui riposava, ma un manto stradale, e non si trovava più nella sua camera, forse era lontana chilometri da casa.

  Si alzò. "Mammina?", disse incerta.

  Guardò prima a destra, poi a sinistra, l'immensità della strada in cui si trovava. Era accaduto, le minacce di sua madre si erano concretizzate, l'aveva portata in un luogo lontano e poi abbandonata, proprio come accadeva in quella storiella con cui la terrorizzava, quella di Hansel e Gretel.

  Si strinse nel pigiama. Scese dal marciapiede e immerse il piedino in una pozzanghera d'acqua torbida. Lo ritrasse immediatamente con disgusto.

  La città in cui era stata abbandonata era silenziosa e il quartiere pulito. Composta da una serie di palazzi eleganti immersi nel verde, lampioni funzionanti, e fiori, tantissimi fiori. Si udiva il cinguettio dei primi uccellini, e non l'assordante frastuono dei camion da trasporto che passavano proprio davanti casa sua, o il rumore del treno che sferragliava sulle rotaie e faceva tremare il pavimento. Sua madre aveva scelto proprio un bel posto in cui abbandonarla, sperava soltanto che non ci fosse una strega dietro una di quelle porte. Non sapeva dove andare, a chi chiedere aiuto. Chi avrebbe voluto una bambina tanto disgraziata come lei in casa?

  Tirò su con il naso e scoppiò in un pianto inconsolabile.

  I lampioni sotto cui si era fermata, si fulminarono, e lo scoppio secco che produssero bloccò le lacrime. Li guardò a bocca aperta e con una certa meraviglia dipinta sul volto. Alcune scintille cadevano come stelle sull'asfalto, creando una magia di colori.

  La strada tutta intorno si distorse e quella più lontana cominciò ad oscurarsi, come se fosse in atto un'eclissi solare esclusivamente in quel punto. Scosse la testa, credendo che fosse un difetto della sua vista, ma il movimento non fece altro che accelerare il processo. L'eclissi divenne buio totale, gli oggetti non esistevano più, gli abitanti di quelle case erano precipitati nell'abisso del nulla.

  Avanzò di qualche passo nell'oscurità e provò a toccare una siepe, avvolta solo in parte dal buio; credeva che avrebbe incontrato un buco nero, invece sentiva ancora le foglie sotto le dita, erano lì, non erano svanite. La sua manina si intravedeva nel mare oscuro, che finì di avvolgere interamente la pianta.

  Scese sulla strada, sicura di essere l'unico essere umano rimasto sulla Terra, e per poco una macchina non la investì. Emerse dal mare nero come un demone furioso, una parte di quelle acque fumose rimasero attaccate ad essa e le trascinò per qualche metro, come se fossero tentacoli di un enorme piovra. Il conducente sembrò non accorgersi della bambina e continuò, spedito, nella sua corsa.

  Paine si spostò velocemente all'indietro, evitando l'impatto. Spaventata dall'impudenza del conducente, corse verso la parte della strada che sopravviveva alla nebbia oscura.

  Notò che la vista migliorava ad ogni passo; il mondo si ricolorava e prendeva forma, ma se guardava a lungo gli oggetti, si accorgeva che questi perdevano momentaneamente la loro forma, per poi riacquistarla. Erano come in un grosso acquerello, la tecnica pittorica che preferiva. Gli oggetti non avevano mai una forma definita, abbracciavano il mondo, non erano soli nelle loro deprimenti forme. Era tutto di fumo, un mondo di fumo, dove tutti vogliono conoscere l'altro e accolgono non solo gli altri colori, ma anche la loro essenza.

  Quel mondo non era poi tanto brutto. Era in un mare di colori e fumi.

  "Paine."

  Paine arrestò il passo. La voce che l'aveva chiamata era esattamente come quel mondo, incorporea, sfumata, una voce gentile, un leggero sussurro. Ne fu ipnotizzata. Proveniva da uno stabile che fino a quel momento non aveva notato, nonostante fosse l'unico a non subire lo strano effetto ad acquerello. Le sue linee erano precise e marcate. Si diresse al palazzo, abbandonando l'oasi di pace in cui era sprofondata.

  Era una costruzione moderna, di quelle che aveva visto soltanto in televisione, nelle telenovele con cui sua madre la angosciava tutti i giorni. Grandi finestre al posto delle pareti, piccole terrazze ad ogni piano, colorate da meravigliosi fiori. Un palazzo nuovo per persone ricche.

  Aprì il piccolo cancello che precedeva i gradini, i cardini produssero un suono metallico alquanto spiacevole, che distrussero la bellezza che aveva affibbiato al palazzo. Salì i gradini reggendosi alla ringhiera metallica, cercando di non cadere. Credeva di trovare il portone chiuso, invece era aperto.

  L'interno del palazzo era al buio, l'illuminazione al neon sfrigolava. Deglutì e spinse la porta. Aveva paura di entrare nell'ignoto, ma non sapeva dove altro poteva rifugiarsi.

  Si addentrò nel corridoio. Dopo poco, grazie al silenzio spettrale, si accorse di essere seguita. In precedenza non aveva notato i passi per via dei rumori dei lampioni. Decine di piedi la stavano seguendo, attendevano una sua mossa.

  Si voltò di scatto e trattenne a stento un gemito di terrore. C'erano degli uomini, delle sagome buie dai tratti indefiniti. Erano sparpagliati per tutto il piano e avevano il capo rivolto a lei. Non poteva stabilire se fossero ostili poiché i loro volti erano privi dei tratti del viso. Nessun naso, nessuna bocca, niente occhi. Come potevano vivere degli esseri simili? Come facevano a respirare, a sentirla, a vederla? Avevano le mani abbandonate lungo il corpo, come appendici amorfe. Chi era nelle file posteriori, spingeva gli individui nelle prime file, al fine di vedere meglio la bambina. Da ogni piccolo pertugio si incontrava uno dei loro volti, che la spiavano.

  Paine fece un passo all'indietro e questi si mossero di un passo in avanti, era chiaro che volessero qualcosa da lei. Capì di essere in pericolo lì, doveva muoversi alla svelta. Diede le spalle alle ombre e un moto di protesta si levò. Versi tremendi, soffocati. Come potevano produrli se non avevano una bocca?

  Riprese a camminare, volgendo di tanto in tanto la testa all'indietro, sperando che sparissero.

  Le figure avevano un'andatura goffa, i loro corpi vibravano, non riuscivano a reggersi in piedi ed erano costretti ad aiutarsi con gli arti per rimanere eretti. Si spintonavano tra di loro, si reggevano alle pareti e al pavimento. Erano una massa oscura. Neri come la pece.

  Nello stretto corridoio il loro numero aumentava invece di diminuire, ad ogni svincolo se ne aggregavano degli altri, le bloccavano il passaggio là dove non volevano che lei andasse.

  Paine temette che prima o poi sarebbe stata circondata, e allora l'avrebbero catturata, o uccisa.

  Invece quelle ombre la condussero ad un appartamento.

  Bussò alla porta, sperava in cuor suo che il proprietario dell'abitazione la aiutasse, scacciasse via quei mostri o le offrisse una via di fuga. Ma nessuno venne alla porta. Era impossibile per lei suonare il campanello, era troppo in alto.

  Le ombre, intanto, l'avevano raggiunta e si erano sparpagliate attorno a lei. Nonostante si spintonassero, cercavano di non entrare in contatto con la piccola, come se nutrissero timore nei suoi confronti.

  "Che volete da me?", chiese Paine, ma la sua voce era talmente flebile che nessuno avrebbe potuto udirla.

  Il più vicino a lei alzò l'arto sproporzionato e le indicò il numero dell'appartamento '12B'.

  Paine aveva il volto perplesso, non aveva capito cosa volesse dirle con quel gesto. Avrebbe voluto dire loro: 'ok, ho capito, ho capito, ho letto quel numero , ho imparato a leggere l'anno scorso, ma ora lasciatemi andare, ok?'.

  L'ombra non era soddisfatta, batté il dito sottile sulla targa dorata.

  Paine lesse a voce alta: "12B, Alberto Gallo." Solo allora l'ombra fu soddisfatta, si alzò sulle punte e raggiunse un'altezza che Paine non credeva potesse esistere nella realtà. Anche se un uomo si fosse issato sulle punte, si sarebbe allungato di sette o dieci centimetri, ma non di trenta...

  Dallo stipite della porta, vide scintillare un oggetto metallico, che le fu consegnato con estrema cautela, come se fosse un cimelio prezioso. Era una chiave, la chiave dell'appartamento.

  Paine la inserì nella serratura e spalancò la porta. Sbirciò nel locale senza muoversi. Non si sarebbe mai intrufolata, sapeva che era illegale penetrare in casa altrui senza un regolare invito. Era uno dei pochi ordini di sua madre, impartitele solo per incutere timore e non per dare una lezione di vita.

  La stanza era molto grande e immersa nell'oscurità.

  Le ombre la spintonarono all'interno.

  "No, no! Che fate? Non posso entrare qui!" Tentò di frenare sui talloni, invano, erano in troppi per poterli bloccare tutti. Si ritrovò così nell'appartamento di Alberto Gallo. Non vedeva nulla oltre una piccola lampada sulla scrivania che illuminava un album fotografico, decise di avvicinarsi, sperando di non inciampare in qualche ostacolo.

  Poggiò una mano sull'album, indecisa se violare la privacy dei proprietari di casa o andare via, ma era certa che le ombre non l'avrebbero lasciata andare, e la curiosità era troppo grande per ignorarla. Sollevò dunque la copertina in plastica e si imbatté nella prima immagine. Era una foto che mostrava un adulto in atteggiamenti strani con un bambino.

  Paine non aveva mai visto nulla del genere, ma sapeva che non fosse normale ciò che l'uomo faceva. Voltò la pagina e ciò che vide la raggelò. La foto successiva, era analoga alla prima, solo che il bambino cambiava, era più piccolo, con dei capelli biondi tendenti al platino; c'era un uomo chino sul piccolo e sembrava che i loro corpi fossero attaccati.

  Non capiva bene cosa stesse accadendo tra i due, avvertiva una profonda angoscia nel guardare l'immagine e, alle sue spalle, sentiva le ombre agitarsi, grattare sulle pareti con gli arti snelli, scavando piccoli solchi con le unghie acuminate.

  La terza foto mostrava lo stesso bambino biondo, morto, disteso in una pozza di sangue. L'uomo che stava abusando di lui, nella precedente foto, beveva un liquore comodamente seduto su un divano sfarzoso. Un secondo uomo continuava a palpare il bambino.

  Paine si coprì gli occhi, avrebbe voluto piangere, scappò in direzione della porta, lontano dall'orco cattivo che abitava in casa.

  Le ombre le bloccarono il cammino.

  "Fatemi uscire!"

  Nessuna reazione. Il suo compito non era concluso. Le indicarono una stanza, in fondo ad un lungo corridoio.

  "Non ci voglio andare!" Era inutile parlare con loro, non la ascoltavano. Si imbronciò per un attimo, fino a che ricordò la fotografia. Non era la prima volta che aveva visto un cadavere; "vedere" non era però il verbo adatto, non li aveva visti con i propri occhi, li aveva...

  Un verso le fece scoppiare il cuore in petto. Emise un grugnito di terrore.

  La casa non era vuota, il proprietario dell'album stava dormendo. Mosse i piccoli piedi in quella direzione, cercava di tranquillizzarsi dicendosi che forse l'uomo era un poliziotto alla ricerca dell'assassino sulla foto, non potevano esisterne molti di uomini cattivi, il mondo era buono, soprattutto con i bambini. Ma un'altra voce, nel profondo del suo animo coprì la flebile vocina della speranza: 'Hai mai visto una persona gentile? Tua madre forse, 'la Regina', non ti maltratta ogni giorno? Non ti caccia? Non ti deride? Non strappa i tuoi disegni chiedendoti di non riempire la casa di robaccia? La maggior parte delle persone è cattiva, Paine. Sono gentili, ma 'gentile' non vuol dire necessariamente 'buono, altruista,', nessuno si butterebbe nel fuoco per te, non conosci nessuno disposto a farlo.'

  Lei non ci credeva, non poteva crederci. Erano esagerazioni, a parlare era la voce di sua madre, era...

  'Senza leggi, senza regole, sono tutti cattivi, pensano solo ad arricchirsi, a sopravvivere. Tu non sei così, tu e altre persone; ce ne sono, non temere, ma non le hai ancora incontrate. Sono proprio come te, hanno paura, si nascondono, fingono di essere come gli altri per non sentirsi sole.'

  Sovrappensiero, raggiunse la camera. Sul letto era disteso un uomo, coperto da lenzuola immacolate. Sul soffitto era acceso un ventilatore che si muoveva, instancabile.

  Gli si avvicinò per potergli scrutare il volto.

  Rimase sbalordita dai suoi tratti. Non era italiano, forse di sangue misto. I capelli biondi, naso e bocca regolare. Era l'uomo nella fotografia, quello seduto a bere un drink mentre il suo compare seviziava il bambino.

  Si chiese per quale motivo le permettessero di vedere quell'uomo, a che scopo? Cosa avrebbe potuto fare lei per aiutare quel bambino se ormai era morto? Doveva chiamare la polizia? Denunciare l'orco? Avrebbero creduto ad una bambina?

  Si limitò a memorizzarlo nei minimi particolari: la piccola cicatrice sul labbro, il neo sotto l'occhio, le profonde occhiaie. Quando fu sicura che non lo avrebbe mai più dimenticato, gli oggetti nella stanza cominciarono ad ondeggiare. Persero il loro colore e la loro forma. Divennero fumo denso, prima grigio, poi bianco, luminoso. Assunsero nuovamente una forma, trasformandosi negli oggetti della sua cameretta. Si ritrovò sdraiata nella posizione in cui si era coricata. I suoi occhi ritornarono scuri e si richiusero.

  Il fumo che aveva inalato, non la abbandonò, era divenuto un tutt'uno con lei.

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