Prologo

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Respira. Andrà tutto bene. Questa volta me lo sento, sono sicura, il mio istinto non sbaglia mai.

Proprio mai?!

Sì, forse qualche volta si è inceppato, ma questa volta no, non lo farà. Sono stufa marcia di questa situazione. Non mi sono trasferita da Londra a Milano per rimanere solo una semplice impiegata, no!

Beh, ti sei trasferita perché tuo fratello ti ha offerto un lavoro.

Sì, lo so, ma ho in mente grandi cose per il mio futuro, come viaggiare, guidare un'auto costosa, trovare un uomo, sposarmi e avere tanti bambini, beh tanti... non esageriamo, al massimo due, non di più.

Il suono delle nocche sulla porta di legno del mio ufficio mi fece sobbalzare sulla sedia e interrompere l'importantissima conversazione tra me e la mia vocina interiore; avrei dovuto darle un nome, in fondo per me era come una persona vera.

«Avanti!» Il mio tono diventava inspiegabilmente stridulo quando ero agitata.

Oddio eccolo, il più insopportabile di tutto il palazzo, con quei capelli unti, ma se li lavi ogni tanto?

«Il Sig. Erik Evans la vuole vedere nel suo ufficio.»

Mi alzai indispettita dopo che l'uscio si richiuse di nuovo e imitai la sua voce aspra. «Erik Evans la vuole vedere nel suo ufficio, gne, gne, gne. È mio fratello, dì, tuo fratello ti vuole vedere, è così difficile?!»

Lo sapevano tutti lì dentro che ero la sorella del CEO, mentre io ero consapevole che mi consideravano una raccomandata; in effetti un po' lo ero, ma in fondo era così che girava il mondo e perché mai avrei dovuto girargli le spalle.

Mi precipitai nel corridoio, camminando a testa alta, orgogliosa dell'incarico che a breve mi sarebbe stato affidato, altrimenti perché mai Erik avrebbe voluto vedermi? Mio fratello conosceva perfettamente le mie capacità, ero sempre stata una studentessa modello, laureata a pieni voti e anche se ero l'ultima arrivata nella società, mi meritavo quel posto.

Mi sentivo gli occhi puntati addosso, quelle stronze della contabilità mi guardavano di sottecchi, come sempre, ma non me ne fregava niente. Quando lì dentro sarei diventata qualcuno le avrei messe a fare le fotocopie.

Guarda che siamo nell'era digitale, al massimo le puoi mettere a formattare le chiavette USB.

Mi bloccai un secondo e alzai il piede in aria. «Cazzo, che male stè scarpe nuove!» Controllai il tallone e notai che mi avevano già provocato una vescica.

Cerca di soffrire in silenzio, ti stanno guardando tutti!

Mi ricomposi, strinsi i denti e ripresi il cammino, anche se un po' zoppicante.

Quando arrivai davanti alla mia meta spalancai la porta senza neanche bussare; ero troppo elettrizzata per perdere tempo in convenevoli.

«Volevi vedermi?»

«Sì, Victoria, accomodati.»

«Perché mi chiami Victoria!» Cominciai a passeggiare nervosamente avanti e indietro. «Non mi chiami mai Victoria! O meglio mi chiami così quando c'è qualcosa che non va. L'ultima volta che mi hai chiamato con il mio nome di battesimo è morta nonna. Oddio a casa stanno tutti bene, vero?»

«Sì, stanno tutti bene, ti vuoi calmare? E siediti per favore, mi metti ansia.»

Mi accomodai sulla poltrona in pelle davanti alla grande scrivania color mogano. Buttai l'occhio fuori dalla finestra, quella stanza aveva una vista stupenda della città, si distinguevano chiaramente le guglie del Duomo e nelle giornate più limpide si potevano intravedere anche le Alpi all'orizzonte.

Due settimaneWhere stories live. Discover now