33 - La calma prima della tempesta

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Il parcheggio della Churchill Accademy era un disordinato agglomerato di macchine costose. Nessuno voleva parcheggiare lontano dall'ingresso, come se fare dieci metri in più richiedesse un indicibile sforzo fisico. Così le automobili venivano quotidianamente accatastate a ridosso di cespugli e aiuole in una sequenza di colori sgargianti e marche straniere impronunciabili.

Accostai la vecchia station wagon di James accanto alla palestra e mi diressi con estrema lentezza verso l'aula di algebra. Tutti sembravano in fibrillazione per la partita. Ghirlande blu e argento addobbavano i corridoi fino a ogni loro più recondito angolo, come a voler rinfacciare agli avversari un eccessivo senso di appartenenza.

«Avete sentito chi è tornato?»

Scansai un gruppetto di ragazze che parlottavano a voce bassa accanto al mio armadietto. I capelli vaporosi che svolazzavano  come nuvole a ogni sbuffo e risatina. Dopo aver provato a circumnavigare la loro cricca in ogni direzione, rinunciai a prendere il libro della teoria di algebra, rassegnandomi a seguire la lezione solamente con il volume degli esercizi.

«Sapevo che sarebbe tornato.»

Le scansai con fastidio, avvicinandomi alla porta dell'aula. Quando ero agitata mal tolleravo le altre persone. Mi richiudevo nel mio silenzio, ostentando un mutismo che molti sembravano trovare ancora più fastidioso di una parlantina incontenibile.

Ferma sulla soglia della classe, presi nuovamente il mio cellulare, cercando un messaggio di Alex che però non trovai. Mi aveva assicurato che sarei stata la prima a sapere i risultati della nostra ricerca, eppure lo schermo nero del mio telefono continuava a fare sfoggio della sua scarsa considerazione.

Avrei preferito lanciarlo nuovamente nella piscina dei Case, pur di non ammettere di essere stata presa in giro ancora una volta. La colpa era mia lo sapevo. Mia, e sua in realtà, perché sembravano esistere due Alex. La versione premurosa che mostrava di fronte a me, e quella che non si faceva problemi ad ignorarmi il giorno dopo. E io mi sentivo come una trottola sballottata tra le sue diverse personalità. 

Mi lasciai cadere su una sedia in prima fila abbandonando la borsa accanto a me. Il quaderno colorato mi fissava dalla tasca centrale e io lo estrassi, pensando che mi sarei potuta distrarre ripassando la lezione del giorno prima.

Oltre a me però, nessun altro sembrava interessato allo studio. Gli insegnanti scorrevano nel corridoio con estrema lentezza, gli studenti parlottavano a voce alta tra loro e il rumore di sedie spostate graffiava fastidiosamente i miei timpani. Persino i bidelli, solitamente ligi al dovere, quel giorno sfoggiavano insoliti sorrisi ed eccentriche sciarpe con lo stemma della squadra. Tutto urlava in un'unica direzione: a Danvers il campionato di football era importante.

«Dite che è qui per la partita?» Due ragazze dietro di me battibeccavano su un qualche nuovo arrivato con voce prepotentemente alta.

Lisciai le pagine davanti ai miei occhi con immotivata cura. Un limite finito all'infinito individua sempre un asintoto orizzontale.

«Non saprei scegliere tra i due: mi piacciono sia i biondi che i mori purtroppo» ridacchiò stridula l'amica.

Il limite se esiste è unico.

«Non vedo l'ora di essere alla partita» cinguettò una terza.

Chiusi il quaderno con uno scatto secco. Non chiedevo tanto. Solamente un po' di pace.

E fu allora che la vidi.

Quella chioma bionda e perfetta che si affannava per raggiungermi, ancheggiando con grazia tra i banchi disseminati per la stanza.

IGNIWhere stories live. Discover now