25 - I Case

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"Ti abituerai, Cassie".

"Ti abituerai, Cassie".

Quella frase continuava a risuonare nella mia testa. Mentre inspiravo, riempiendo d'ossigeno i miei polmoni, che sentivo prima tendersi e subito dopo accartocciarsi nuovamente, come un sacchetto di carta vuoto. Sentivo quelle parole anche mentre rilasciavo l'anidride carbonica, sperando di esalare allo stesso tempo anche quel nervosismo che mi si era appiccicato addosso nel momento stesso in cui Alex aveva ammesso di essere un Cavendish.

Forse quel mantra poco aveva a che fare, con la rivelazione delle sue origini, ma era la mia promessa di una vita facile, di una soluzione certa in quel tunnel di difficoltà che avevo affrontato da bambina. L'impegno di James per tranquillizzarmi, quando lui per me era semplicemente papà, il mio eroe: niente pubblicazioni importanti e niente delusioni.

«Ehi, tutto bene?».

La voce di Alex mi aveva riacciuffata come se fossi stata un aquilone che aveva osato volare troppo in alto. Si era avvolta attorno a me, decisa e delicata allo stesso tempo, perché nonostante il tono fermo, un'inflessione discreta, quasi preoccupata aveva smussato il suo solito atteggiamento sfacciato.

Aprii gli occhi di scatto, mettendo nuovamente a fuoco il salotto di casa Parker, con i suoi toni morbidi e i pezzi d'arredamento in legno scuro. Mi ero dissociata totalmente dalla realtà, cosa che accadeva spesso, quando da piccola mi rifugiavo nel mio mondo per non dover affrontare gli eventi che mi facevano paura. Alex mi stava guardando con un'aria corrucciata, mascherata da un sorriso comprensivo che non riusciva a eliminare la preoccupazione del suo volto teso. Probabilmente credeva che stessi impazzendo.

Arrossii violentemente, colta in flagrante per qualcosa che non volevo condividere con il resto del mondo.

«Scusa» mi affrettai a mormorare. «Quando sono agitata faccio degli esercizi per calmarmi» balbettai, afferrando il bicchiere di fronte a me. Quello stesso bicchiere che avevo già ampiamente torturato nei minuti precedenti, e che ancora portava i segni delle mie unghie che avevano ricamato una serie di graffi sul cartone morbido.

«Sicura?» mi chiese sporgendosi verso di me, con quell'aria inquisitrice e le palpebre increspate, che mi facevano chiaramente capire che non si stesse bevendo le mie bugie.

Annuii, deglutendo a vuoto e lui continuò a guardarmi per alcuni lunghi secondi, senza dire nulla, mentre sentivo su di me l'ombra proiettata dalla sua statura, talmente concreta e tangibile, che mi sembrava di percepirla come gocce di acqua gelida a incresparmi la pelle.

E mentre i miei sensi percepivano davvero per la prima volta la vicinanza di Alex, nella mano calda che mi sfiorava appena la coscia, come se all'improvviso si fosse accorto che toccarmi non fosse buona idea, nel respiro che sentivo essersi fatto più veloce, probabilmente a causa dell'agitazione, nel frattempo all'interno della mia testa un unico pensiero continuava a vorticare: ti prego, non farmi domande.

Era una richiesta incredibilmente egoista la mia. Soprattutto perché solamente una manciata di minuti prima gli avevo chiesto fiducia e lo avevo costretto a parlarmi della sua vita. Ed ora proprio avrei voluto sottrarmi a quel confronto.

Nonostante quella consapevolezza, e nonostante i pensieri che sicuramente si stavano affollando anche nella sua di testa, noi ci limitavamo ad osservarci. In un peregrinaggio silenzioso, i miei occhi esitanti erano finiti nei suoi cupi, e per un istante mi dimenticai del perché stessi costringendo il mio cervello a lavorare al doppio della velocità, per prevedere i suoi ipotetici interrogativi sul mio comportamento.

In quel momento, mi dimenticai persino perché cercassi di scappare sempre. Dalle complicazioni, dalle relazioni umane, dalle domande... semplicemente, da tutti.

IGNIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora