Lui però mi fermò subito, sollevando stancamente una mano. «Adesso ti svelerò un segreto». Il signor Case si avvicinò a me con aria solenne, guardandosi attorno assicurandosi di non essere visto. «Regola numero uno» snocciolò con fare cospiratorio, «mai contraddire il capo».

L'aveva sussurrato con tono scherzoso, chiudendo quella frase con un occhiolino. Quasi come se fosse un segreto tra noi due, e involontariamente mi trovai a sorridere insieme a lui.

«Fammi solo un piacere» continuò, tornando ad assumere un atteggiamento pratico. «Prima di rientrare a casa, porteresti questi documenti da me? Macy potrebbe mangiarmi vivo, dato che avrei dovuto leggerli una settimana fa».

Così ora mi trovavo qui, di fronte alla moderna villa dei Case. Tra le braccia, una scatola di documenti che pesava quanto un cucciolo di rinoceronte bianco.

Avevo già suonato il campanello un paio di volte, senza che anima viva rispondesse, e quindi le opzioni erano solamente due: o la casa era totalmente disabitata – e a quel punto avrei avuto un problema serio – oppure chi era all'interno stava deliberatamente ignorando i miei tentativi di consegnare i faldoni del signor Case.

Ero sul punto di estrarre il telefono per chiamare Alex, o la segretaria di suo padre, quando la porta si aprì, mostrando un bambino con i capelli disordinati che mi guardava con grandi occhi diffidenti. Stringeva tra le mani un pupazzetto a forma di coniglio e stava lì, senza parlare, a osservarmi da sotto le ciglia scure.

Mi accigliai per un istante, mentre il mio cervello cercava di capire cosa ci facesse un bambino così piccolo di fronte ai miei occhi. Che fosse il fratello di Alex? No, non poteva essere, dal momento che Christian era abbastanza grande per aver già vinto il campionato nazionale di football. Allo stesso tempo però, nessuna ipotesi alternativa condensò nella mia mente.

Piegai le ginocchia e mi abbassai, per portare il mio viso alla sua altezza.

«Ciao, mi chiamo Cassie» esordii, mostrando un sorriso esagerato nel tentativo di apparire incoraggiante. «C'è qualcuno in casa?».

Ovviamente mi aspettavo un'immediata rassicurazione da parte sua, perché non potevano aver lasciato un bambino così piccolo da solo, giusto?

In tutta risposta però, lui si limitò a fissarmi senza dire una parola. Torturava le orecchiette del coniglio, intrecciando le dita minuscole con la stoffa un po' consunta, mentre io rimanevo ferma con una sensazione di disagio che cresceva in me. Poi, dopo quella che mi parve un'eternità, mosse lentamente la testa su e giù e un involontario sospiro di sollievo lasciò il mio corpo.

«Vuoi andare a chiamare qualcuno, allora?» lo esortai. Sorridevo talmente tanto da sentire le guance indolenzite, ma non conoscevo altro modo per comunicare con un bambino così piccolo. «Io resto qui, se per te va bene».

Stavo cercando di parlare con un tono calmo, ma i bambini mi mettevano soggezione. Non avevo fratelli o sorelle e, a dirla tutta, non mi ero mai dovuta prendere cura di nessuno, neppure di un animare domestico. E bambini e animali mi facevano paura esattamente allo stesso modo.

Prima che potesse rispondere però, una voce familiare ci raggiunse.

«Ehi nanerottolo, cosa fai alla porta?».

La figura di Alex proiettò un'ombra su di noi, e a quelle parole il bambino corse a nascondersi dietro alle sue gambe, quasi fossero una fortezza dalla quale però continuava a osservarmi curioso.

Mi rialzai, trascinando con me la voluminosa scatola in cartone e scontrandomi con il sorrisetto divertito di Alex.

«Non c'era bisogno che ti accucciassi, Reed». Si passò una mano sul mento, scrutando con occhi attenti la mia figura stretta in un vestito blu stranamente elegante. Avevo dovuto dire addio ai miei jeans e anfibi da quando frequentavo le Industre Case. Il giudizio implacabile di Macy mi intimoriva troppo per ignorare il dress code. «Non sei poi così alta» mi prese in giro, concedendomi la versione più rilassata di sé.

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