«Zia Jenna, cosa ci fai qui?».

Non sapevo come avesse fatto a sentire la mia voce con i clacson delle macchine e il ronzio vibrante del motore, ma vidi la donna di fronte a me far scivolare gli occhiali da sole lungo il ponte del naso, prima di assumere un cipiglio estremamente offeso.

«Sorvolerò sul fatto che tu mi abbia chiamata "zia", solamente perché sto per chiederti un grosso favore.» La vidi rabbrividire, come se avessi appena pronunciato una parolaccia e istintivamente mi trovai a sorridere per l'assurdità di quella reazione. La faceva sentire vecchia, aveva detto una volta, ma per me lei era semplicemente "Zia Jenna". «Dai, salta in macchina, ti do un passaggio» continuò.

Mi affrettai ad aprire la portiera, senza riuscire a smettere di sorridere mentre la osservavo. I lunghi capelli rossi erano intrecciati in un elegante chignon, dal quale sfuggivano alcune ciocche ramate. Adesso però le sue iridi azzurre si erano nuovamente nascoste dietro a grosse lenti fumé.

Non la vedevo da più di cinque anni, e mi era mancata così tanto che avrei quasi potuto abbracciarla. Quasi.

«Allora» la incitai, sistemandomi meglio sul sedile, mentre mi sporgevo a incastrare la cintura di sicurezza. «Cosa ti porta nello Stato con il più alto numero di pannocchie d'America?».

La vidi muovere il capo a ritmo di musica, quasi stesse per fare l'entrata trionfale su un ring particolarmente celebre.

«Stai parlando con la nuova direttrice della fondazione Martin» mi spiegò eccitata, tamburellando con le dita sul volante.

Okay, sembrava una cosa grossa. Davvero grossa. Ma non avevo la minima idea di cosa stesse parlando.

Dato che non rispondevo, fu costretta a voltarsi nella mia direzione. Sollevò gli occhi al cielo e mormorò qualcosa che assomigliava tremendamente a "cosa insegnano a voi ragazzi?"

«La galleria d'arte di Boston» chiarii con tono paziente.

Era il sogno di zia Jenna. Dirigere una galleria tutta sua era stato il motore che l'aveva spinta a frequentare un master mentre già lavorava, era ciò che le aveva impedito di impazzire dopo tutte le notti insonni, dopo tutti i portfolio scartati. In qualche modo sembrava che ogni pezzo si fosse incastrato, anche i rifiuti e i mesi di stop quando aveva visto persone molto meno dotate di lei passarle davanti. Per quello aveva preso un paio di anni sabbatici ed era partita alla scoperta del mondo, ma adesso sembrava che ogni sacrificio avesse dato i suoi frutti. E in quel momento, neppure la consapevolezza che fosse alla guida di un'auto mi impedì di stringerla in un veloce abbraccio.

Appoggiai per qualche secondo la guancia alla sua spalla. «Allora è proprio una fortuna che anche James lavori qui» mi ritrovai a dire, con la voce incrinata dalle emozioni che mi turbinavano nella pancia. Per la prima volta, avevo la sensazione che i viaggi di mio padre avessero portato a qualcosa di positivo. Credevo di non rivedere la mia famiglia ancora per mesi e invece Jenna era proprio di fronte ai miei occhi. «Saremo felicissimi di ospitarti per tutto il tempo di cui avrai bisogno» continuai, accennando con il pollice agli scatoloni che avevo intravisto sul sedile posteriore dell'auto.

Jenna era la sorella minore di mia madre e mi aveva accolta come una figlia, dopo il nostro trasferimento a Londra. Forse per me era stata più una sorella maggiore, a causa della nostra limitata differenza d'età, ma in ogni caso aveva rappresentato uno degli unici punti fissi nella mia infanzia. All'epoca, mio padre era coinvolto in una grande pubblicazione scientifica. "Il fiore all'occhiello della sua carriera" diceva. In quel periodo però, aveva iniziato a trascurarmi sempre di più.

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