Quello non era neppure il vero problema, a essere onesti. Il richiamo di Alice aveva infatti attirato l'attenzione di una dozzina di ragazze in divisa blu e argento, che sollevarono il viso nella mia direzione solamente per guardarmi con astio. Bene, mi ero sicuramente fatta delle nuove amiche.

Se avessi potuto, credo che avrei esposto un'insegna luminosa in fronte, per rassicurarle della mia scarsa propensione allo sport. Alla fine, però, mi limitai a raggiungere la ragazza mora impegnata a fare stretching, vicino alla finestra.

«Avevo detto a Caleb di non voler fare il provino» mormorai infastidita.

Che Alice potesse essere ragionevole? Ne dubitavo. Eppure, quando la vidi esitare per un attimo, credetti davvero di aver fatto centro.

«Consideralo come un favore personale a me» ribatté subito dopo, inarcandosi per afferrare qualcosa dalla panca.

Erano maglietta e pantaloncini della squadra, realizzai, quando mi schiaffò al petto quei pezzi di stoffa blu, costringendomi ad afferrarli prima che cadessero. Fu quello il momento in cui capii che glieli avrei tirati indietro, perché ero sempre stata fin troppo accomodante con lei.

Come se avesse capito le mie intenzioni, Alice congiunse le mani in segno di preghiera. «Ho metà della squadra ammalata» pigolò, sfoderando quella combinazione di occhi dolci e labbro inferiore tremante che generalmente faceva cadere ai suoi piedi sia Caleb che tutti i suoi amici. Peccato che io non fossi uno di loro. «Per favore» aggiunse.

Feci un profondo sospiro, iniziando a pentirmi delle mie parole ancora prima di averle pronunciate. «Faccio il provino, solo se mi assicuri che non entrerò nella squadra». L'ultima cosa di cui avevo bisogno era rimanere incastrata nei corsi extrascolastici. Non solo non avevo intenzione di volteggiare a bordo campo, ma mio padre fiutava l'odore di stabilità peggio di un cane da tartufo. Ed era a quel punto, di solito, che smaniava per andarsene.

«Prometto!» esclamò lei saltellando sul posto. Terminò l'esibizione con un braccio sollevato al cielo e una mano incastrata sul fianco, prima di ridacchiare per la mia smorfia contrariata. «Ti aspetto di là».

Osservai Alice sfilare verso il corridoio che dava sulla palestra, con una goccia di nervosismo. Non avevo esattamente idea di quanta gente ci fosse oltre quel muro. Forse, però, era qualcosa a cui non volevo neppure pensare in quel momento. Non dovevo distrarmi dall'obiettivo della serata, mi ricordai.

Insieme a me, erano rimaste solo un paio di ragazze che si stavano affannando per indossare la divisa e ricacciare negli armadietti tutti i loro effetti. Osservai una di loro nascondere il cellulare dentro gli stivaletti e un'altra legare la chiave del lucchetto al braccialetto. I loro respiri veloci sferragliavano attorno a me, in una tipologia d'impegno al quale io non intendevo aggregarmi. Mentre però mi liberavo del maglione pesante e dei jeans, una strana idea iniziò a prendere forma nella mia testa.

Quella sera mi sarei imbucata a un evento, solo per scoprire se davvero ci fosse un legame tra quella festa e il medaglione inviatomi da mia madre. Eppure, come potevo non aver pensato di iniziare da qualcosa di ancora più semplice? Erano i Parker i destinatari di quell'invito. Perché non incominciare da loro? Perché non cercare di capire in che modo fossero legati sia a mia madre, che ad Alex?

Mi incamminai verso l'ingresso della palestra continuando a riflettere sulla possibilità che sapessero qualcosa. Tutto ciò, però, dipendeva dall'esistenza o meno di un vero legame con i medaglioni. Al momento infatti, il collegamento con la festa in maschera era debole e stiracchiato. Ma l'idea che Alex, per qualche strana ragione, avesse deciso di assecondarmi rendeva i miei sospetti in qualche modo più leciti.

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