Capitolo 15

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Il vento mi districava le ciocche di capelli, lasciando che mi solleticassero il viso e si scontrassero contro le mie ciglia. Li scostai con una manata, nell'intento di guardare Harry dritto negli occhi, «fa un po' freddo qui»

Avevo ancora in mente il nostro discorso di poco prima. Harry sembrava esserci rimasto davvero male, per non avergli detto dell'ultima volta in cui avevo fatto sesso. A lui dava fastidio il fatto che ormai non ci dicessimo più ogni singola cosa apertamente, ma era giusto per me illudermi che ci fosse anche un briciolo di gelosia?

No, era sbagliato, assolutamente. Harry non era geloso, che motivo ne avrebbe avuto? Ero solo la sua migliore amica, ed era ormai la frase che mi ripetevo da giorni. Credevo – speravo – che lui provasse qualcosa nei confronti dei rapporti che avrebbero potuto coinvolgermi, come si era trattato di Cameron.

Era sì una finzione, ma sbagliavo a sperare che lui ne sarebbe stato contrario? Sì, sbagliavo da morire: aveva pure cercato di aiutarmi. Dio, che stupida. Mi facevo complessi inutili per nulla, ma era nella mia natura.

Dovevo solo pensare ad Harry, in quel momento; a come si sentisse, a cosa provasse.

«E' il vento» alzò la voce, per sovrastare il rumore del motore e delle onde. Si scaldò le braccia, strofinandovi sopra le mani. Eravamo seduti sul traghetto, all'ultimo posto, in fondo a destra, sui seggiolini rossi affacciati verso le onde che si infrangevano contro il mezzo di trasporto. Gli sorrisi quando mi avvolse il corpo col braccio, nell'intento di scaldarci.

Il calore del nostro contatto mi scaldò l'anima. «Ho la sensazione che tu ci venga spesso qui, quando sei a New York» lo osservai, con l'intento di farmi dire tutto. Harry aveva sempre avuto una parte terribilmente sensibile di sé stesso. Sentiva cose che per gli altri erano scontate, era permaloso e metteva il broncio per la più stupida delle situazioni venutesi a creare. Ero sempre stata tra le poche persone, che oltre quel broncio andava a cercare la radice della sua rabbia, della sua frustrazione.

Non volevo che Harry stesse male, non volevo che soffrisse. I suoi occhi mi ricordavano quelli che aveva avuto in un periodo particolare della sua vita, dopo che suo padre se n'era andato.

Avevamo avuto, forse, la “fortuna” che ci capitasse un'esperienza del medesimo peso e dolore. Ci eravamo supportati a vicenda, vedendo come la mancanza di un genitore incidesse nella nostra vita. Con la nostra amicizia eravamo riusciti a rattoppare un attimo quell'enorme buco, attraverso l'enorme aiuto e amore di Anne e Charlie.

Sin da piccola, osavo paragonare la mia vita con quella degli altri e mi ero sempre posta la fatidica domanda: perché a me? Perché gli altri devono avere due genitori e io no?

Sapevo fosse un comportamento sbagliato, non mi avrebbe portato da nessuna parte, ma ancora oggi oso pormi quelle domande. Quel dolore, infatti, era per la maggior parte scomparso, ma non sarebbe mai andato via del tutto.

Speravo che ciò che avesse Harry in quel periodo fosse ugualmente passeggero, e di poter arrivare a capire per quale motivo fosse in tale situazione. Magari era solo nervosismo per il matrimonio, o il timore di lasciare la band, ma volevo ugualmente indagare più a fondo.

«Mi piace venire a pensare» disse, guardandomi negli occhi. Quello sguardo talmente serio da mettermi addosso un brivido.

Mi piaceva terribilmente, mi piaceva da morire non potevo nasconderlo. I miei occhi vagliavano ogni tanto le sue labbra, ancora chiuse e corrucciate. Avrei voluto baciarle.

«Dimmi quello che pensi» afferrai col pugno il suo cappotto, per fare maggiore leva. «Sai che puoi farlo» lo incitai dopo un po', vedendolo pensieroso.

Il matrimonio del mio migliore amicoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora