Capitolo 24

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[Attenzione!: i contenuti di questo capitolo non sono adatti ai minori]

«Rue?»

Quella voce, quella maledetta voce.

Mi sentii pietrificare dalla testa ai piedi. La maglietta che tenevo tra le dita scivolò sul pavimento. Dio, potevo perdere così il controllo del mio corpo solo a sentire il suo tono incerto che mi chiamava?

A quanto pare potevo.

Quando mi voltai verso di lui, cercai di indossare la maschera di indifferenza più inscalfibile che potei.

Lo vidi sulla porta, coi capelli scompigliati, la giacca scura sopra una felpa blu della Nike, i pantaloni stretti e delle converse. La mano adornata di anelli che stringeva lo stipite della porta. Le nocche bianche.

Potevo percepire il nervosismo dal suo sostare immobile, coi piedi che parevano tremare in attesa.

Dal mio canto, mi stavo trattenendo il più possibile per non mostrare i miei sentimenti. Avevo passato l'ultima notte a rigirarmi tra le coperte, le lacrime che a stento varcavano il limite delle palpebre.

Sapevo di essere troppo sensibile, la maggior parte del tempo, ma quella volta era più che lecito. Harry mi aveva ferita, ferita nell'orgoglio.

Mi aveva baciata e aveva rinnegato tutto il mattino successivo, definendolo un 'niente'. Ero innamorata di lui, ne ero certa ormai da tempo e mi sembrava solo uno spreco di energie attendere qualcosa che con lui non sarebbe mai arrivato.

Mi voltai e afferrai la maglietta che mi era scivolata come una saponetta, tornando a fare ciò di cui ero occupata precedentemente, ignorando la sua presenza. Mi morsi il labbro e cercai di non pensare, cercai di scacciare fuori dalla mia mente ogni momento insieme che tornava a galla. Dovevo uscire da quell'appartamento.

«Che ci fai quì?»

«Non lo vedi?» quasi sbottai. Ero talmente nervosa che non riuscivo a trattenermi. Volevo urlargli quanto lo amassi, quando desiderassi che allo stesso tempo non si facesse vedere da me. Presi i vestiti e iniziai a infilarli nella valigia senza nessun riguardo.

«Rue» chiese ancora, stavolta il tono più marcato, «cosa stai facendo?»

«Sto prendendo le mie cose!»

«Rue, - mi chiamò per la terza volta nell'arco di due minuti – smettila» il tono era duro, severo. Come quello che si osa rivolgere ad un bambino per fargli capire che deve smetterla col proprio comportamento. Io non riservavo quel tono nemmeno ai bambini che giocavano nella mia squadra di calcio. Era talmente irrispettoso... Talmente da Harry. Lui e i suoi maledetti capricci. Ogni riccio un capriccio. E ne aveva fin troppi su quella testa bacata che si ritrovava attaccato al collo. Per Dio...

A quel punto, mi voltai, «smettila? Mi stai chiedendo di smetterla? Ma vuoi scherzare?»

«Mi vuoi spiegare perché di punto in bianco sei andata in escandescenza? Che cosa ho fatto» si toccò il petto, come a cercare di difendersi. Come se fossi io quella che stesse sbagliando. Aveva proprio inquadrato male la situazione.

«E osi anche chiederlo? Sei un bambino» dissi quasi schifata.  Mi voltai per riprendere a riempire la valigia nel minor tempo possibile. Il tessuto delle magliette si ammassava l'uno sull'altro. Sentivo ancora il profumo dell'ammorbidente usato da Gwenda.

«Avanti, spiegami quest'accusa, avanti, Rue. Non fare la codarda» sentii i suoi passi dietro di me.

«La codarda? Tu, stai dando a me, della codarda» risi istericamente, voltandomi, le mani sui fianchi.

Il matrimonio del mio migliore amicoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora