8 - Il medaglione

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Avevo la sensazione di trovarmi su una sorta di filo. Da una parte c'era la logica, la mia razionalità, che mi diceva di non dar per scontato che dietro a quella coincidenza ci fosse qualcosa di più, mentre dall'altra lo spirito avventuriero ereditato da James stava già creando una montagna di castelli.

Non sapevo da che parte sarei caduta, ma c'era qualcuno che magari si sentiva in bilico proprio come me. Guardai l'orologio che avevo al polso. Forse, se mi fossi mossa subito, sarei riuscita ad arrivare in tempo per la lezione delle dieci. E prima di decidere razionalmente cosa fare, istintivamente afferrai le chiavi della macchina di James.

***

«Luce dei miei occhi, stai bene?».

Dean saltellò ripetutamente sul posto, mentre mi affiancava sul vialetto che portava al padiglione nord, quello dedicato alle lezioni umanistiche. Credo che lo stesse facendo per evitare di interrompere la sua corsa e, solo in quel momento, notai che portava dei pantaloncini della squadra di football e una maglietta talmente scollata ai lati, da farlo sembrare praticamente a torso nudo.

Rabbrividii all'istante, abbracciandomi il busto per scaldarmi. Nel pittoresco Stato del Massachusetts, quella mattina le temperature sfioravano appena i quindici gradi e una brezza pungente increspava la superficie del vicino stagno.

«Meglio, grazie» confermai, sistemandomi il maglione e riprendendo a camminare verso l'aula di filosofia.

Dean mi seguì e sentii i suoi passi rimbalzare sul ciottolato, accanto ai miei. «Allora forse Philip potrà sopravvivere» mormorò allegro, ridendo da solo e spostando i riccioli biondi che continuavano a scivolare dalla bandana che teneva legata in fronte.

Rallentai, rivolgendogli un'occhiata confusa. Perché Philip temeva per la sua vita? Non mi sembrava di averlo minacciato eccessivamente. Avevo spinto la sua testa sott'acqua solo per qualche istante e poi non avevamo neppure più parlato. Beh, forse era proprio quello il problema: non eravamo amici, ma in fondo poteva pensare che fossi ancora arrabbiata con lui. In ogni caso, Dean non sembrava intenzionato a fornirmi alcuna spiegazione.

Rimasi per un po' a ragionarci, anche mentre salivo i gradini in pietra che portavano al corridoio impressionista. Non che quello fosse il suo vero nome: era un semplice passaggio decorato con una serie di opere di puntinismo che, mi auguravo, fossero mere riproduzioni su carta. Non potevo infatti pensare che alla Churchill Accademy facessero scorrazzare mandrie di studenti con caffè e yogurt d'asporto, accanto a quadri della seconda metà dell'ottocento.

Era lì che avrei frequentato la lezione di filosofia, l'unica materia che mi era stata imposta al solo scopo di accrescere gli studenti assegnati alla signorina Davis.

Non avevo impiegato molto a capire perché la scuola incentivasse la frequenza di quel corso. La Davis non era male, cercava di sviluppare una sorta di discussione informale e poteva solo essere apprezzata per i suoi sforzi. Il problema principale, però, era che faticava sia a mantenere l'attenzione degli studenti, sia a gestire le polemiche che naturalmente sorgevano in una classe di studenti ipercompetitivi. In sostanza, mi faceva solamente una grande tenerezza e per quello mi sforzavo di intervenire, di tanto in tanto.

Superai quell'accozzaglia di sedie disposte a semicerchio, di fronte al piccolo palco che ci dividevamo con il club di teatro. Sull'unica lavagna a fogli mobili, erano state riportate le classiche domande esistenziali.

Chi siamo?

Da dove veniamo?

Dove andiamo?

"A casa" avrei voluto rispondere, ma prima che fossi in grado di fare dietrofront, un gruppetto di ragazzi urlanti si materializzò alle mie spalle.

IGNIWhere stories live. Discover now