5 - La Churchill Accademy (II)

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«Alice, non siamo in uno show di sopravvivenza estrema.» Caleb ci affiancò mentre terminavamo di comporre il nostro vassoio. Una sorta di tortino di verdure per Alice, e un quantitativo indecente di tranci di pizza per noi due. Mollò una lattina di coca-cola sul mio vassoio e ne presa una per se stesso.

«Non disturbatevi a chiamarmi, quando vomiterete anche il pranzo di Natale» ribatté lei con tono fintamente allegro.

«A proposito di chiamate...» Caleb afferrò per un braccio la cugina, mentre con la testa mi faceva segno di seguirli all'esterno, dove una serie di tavoli erano appoggiati al limite tra la serra e l'immensa distesa boschiva che si estendeva per le contee di Danvers e Peabody.

James l'aveva scelta per quello. La città, intendo. L'aveva scelta per la vicinanza con l'università di Boston e per la possibilità di assaporare l'autentica vita di campagna. Non avevo avuto il coraggio di fargli notare che in realtà ci fosse ben poco di autentico o di contadino nella cittadina che aveva scelto. Era un covo di ricconi che ostentavano l'ultimo modello di automobile nel parcheggio sul retro. Ma a lui piaceva, e a me bastava questo.

Prendemmo posto a un tavolo da picnic, mentre Caleb scalpitava per recuperare la nostra attenzione. «Cosa è successo ieri sera?» chiese inchiodando la cugina con uno sguardo carico di tensione.

Non riuscivo a capire se gli piacesse o meno quel ruolo. Quello di cugino iperprotettivo, che tentava di imbrigliare l'esuberanza di Alice. Perché per quanto si rendesse sempre scontroso quando lei esagerava, una parte di me aveva la sensazione che si sentisse importante in quella veste.

Lei come al solito reagì con la maturità che ci si sarebbe aspettata da una ragazza di diciassette anni: finse di non sentirlo, e rivolse il viso nella mia direzione. «Sbaglio o tu eri un po' diversa, quando siamo andate via?» mi domandò, portando alla bocca una forchettata di pasticcio.

Il ricordo dei miei vestiti zuppi mi faceva ancora rabbrividire. Anzi, avevo la sensazione che quel freddo mi si fosse incastrato dentro, nonostante la doccia calda e il pigiama in pile, decisamente eccessivo per quel mese dell'anno. Ma la punta del naso ghiacciato e le dita intorpidite non mentivano. Le coprii con le maniche del maglione che indossavo, scaldandole tra loro e pensando al contempo a una scusa da refilarle.

«È stata una serata movimentata» risposi distratta. E il tuffo in piscina era stato solo l'inizio.

La mia risposta evasiva finì per non essere notata, perché Caleb tentò prontamente di rientrare nel nostro campo visivo, muovendo le mani di fronte ai nostri occhi. Evidentemente non sopportava di essere stato tagliato fuori dalla conversazione, ma non appena riuscì ad attirare la nostra attenzione, sulla soglia della mensa comparvero gli ultimi membri del nostro gruppo. Due ragazzi talmente agli antipodi della catena alimentare della Churchill Accademy, che ancora non avevo capito cosa avessero in comune.

Matt, il nerd dai fitti riccioli e moderni occhiali neri, che mi era stato presentato come promessa dell'olimpo di Yale nonché signore oscuro dei Sith, e il famoso Dean, il ragazzone biondo che guidava la squadra difensiva di football e che aveva quella strana situazione indefinita con Alice.

Non sapevo esattamente come quei due si sopportassero, perché sulla carta avevano in comune quanto un amish e una stripper. Eppure dove non arrivava il temperamento focoso e adrenalinico di Dean, c'era sempre la pazienza imperturbabile di Matt a rimetterlo in riga. E anche quel giorno arrivarono al nostro tavolo esattamente allo stesso modo: Dean con un ematoma sul viso e le labbra imbronciate, mentre Matt gli reggeva lo zaino e scuoteva la testa esasperato.

«Ho bisogno di un'infermiera!» Dean si lanciò su Alice, sfoderando il suo cipiglio da cucciolo di labrador un po' troppo alto. «Curami tu, meraviglia delle meraviglie!».

IGNIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora