Avevo quindi provato a chiamare Caleb, suo cugino, che si comportava sempre da fratello maggiore un po' troppo protettivo, ma il telefono aveva suonato a vuoto per un numero infinito di secondi, prima che la segreteria telefonica recidesse ogni mia flebile speranza. Quindi adesso mi trovavo da sola, a casa di uno sconosciuto, infilata tra i corpi sudaticci dei miei compagni di corso, senza sapere esattamente cosa fare.

«No, Cassie, vai tu.» Mi spinse contro il divano, rischiando di farmi capitolare sopra un gruppo di ragazzi che giocavano a lanciarsi dei piccoli vasi orientali. Sentii lo spirito da archeologo di James, mio padre, guardarli tutti con occhio accusatorio, minacciando una ritorsione immediata. «Io non voglio più Dean, voglio solo bere» mugugnò, strusciando la sua guancia sulla mia spalla. Dio, era completamente andata!

Mi massaggiai le tempie con le dita, mentre cercavo di farmi venire un'idea grandiosa per trascinarla via da quella festa, ma lei sembrava ignorare i miei tentativi di comportarmi in maniera responsabile, perché proprio in quel momento si ributtò nella mischia, iniziando a ballare contro la schiena di alcune ragazze intente a cantare un pezzo degli Oasis.

Un piccolo sospiro lasciò le mie labbra, mentre cercavo di recuperare la ragione grazie a quel momentaneo attimo di tregua. Dovevo farmi venire qualche idea, anche il mio lato lagnoso stava già facendo il conto di tutte le sfortune di quella serata.

In primis, non avevo una macchina. Alice era passata a prendermi con la sua, e aveva iniziato a sbronzarsi dieci secondi dopo essere entrati in quella villa. E ciò ci portava al secondo punto: non sapevo dove fossi. Avevo una mezza idea che avessimo raggiunto la zona nord di Danvers, perché avevo visto scorrere di fronte ai miei occhi una moltitudine di case in stile coloniale, con piscine a sfioro degne di una rivista d'arredamento. E quella in cui mi trovavo non era da meno.

Le pareti erano costellate di opere d'arte, che risaltavano grazie ai tappeti persiani chiari, e quel salone dove si trovavano tre divani disposti a ferro di cavallo era più vasto di un campo da basket. Era tutto così elegante ed essenziale, che quel design ricercato finiva per stordirmi, soprattutto se lo paragonavo con la casa dove abitavo io al momento. Feci una smorfia ricordandomi quella sorta di castello abbandonato a tre piani, che i Parker ci avevano affittato. L'ennesima fregatura in cui mio padre si era lasciato incastrare, a causa del suo animo avventuroso e al contempo totalmente ingenuo e inaffidabile.

«Sei la figlia di un diplomatico.»

Una voce limpida mi riscosse dai miei pensieri. Sollevai lo sguardo, mettendo a fuoco la figura di quel ragazzo alto e un po' allampanato, che mi tormentava da quando avevo messo piede a Danvers. Non sapevo perché Philip Reese si ostinasse a tentare di indovinare cosa mi avesse spinta a trasferirmi in quel paesino sperduto, e onestamente non sapevo neppure perché gli interessasse così tanto. Non eravamo neppure amici! Tuttavia, finché non mi avesse chiesto chiaro e tondo che lavoro facesse mio padre, avrei continuato a divertirmi ascoltando le sue teorie strampalate.

«Direi proprio di no» replicai, accostandomi al suo orecchio. Quella musica rimbombava talmente forte da azzerare il resto dei suoni, così prepotente che la sentivo pulsare persino sottopelle. «Sei completamente fuori strada.»

«Principato europeo» tentò, alzando un po' la voce. Poi mi scoccò un'occhiata sorniona. «Si sente che non sei americana.»

Scossi ancora la testa. Avrei voluto dirgli che effettivamente ero inglese, dato che l'unica casa di nostra proprietà si trovava a Londra, ma non era neppure quella la realtà. James e mia madre avevano vissuto lì, prima che lei decidesse di scappare perché eravamo evidentemente indegni delle sue attenzioni. Quindi no, solo Elizabeth e James potevano vantare quel titolo. Io in realtà non appartenevo proprio a niente.

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