Nono inverno, pt uno

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Mi strinsi nel giaccone di lana, contemplando con occhi sognanti l'immensa bellezza di quella città durante la stagione invernale. L'avevo vissuta per mesi, ma niente era paragonabile alla voragine che ti colpiva d'inverno. Quel bianco era lacerante, risucchiava ogni parte del tuo essere e ti lasciava addosso un vago senso di purezza, di benessere. La panchina di legno era ghiacciata, ma la bellezza innevata di Central Park non poteva non meritare qualche istante di respiro. Sin da quel fantomatico colloquio, infatti, non mi ero ancora fermata ad osservare nulla di ciò che mi circondava. Mi limitavo ad assorbire ogni energia come la trottola giocattolo di Noah. Georgia era così affascinata dal mio lavoro da non averne mai abbastanza: la semplice proposta di colloquio si era presto trasformata in un tirocinio e quell'opportunità, in pochi mesi, si era tramutata a sua volta in un vero e proprio ruolo a tempo indeterminato. Viceredattrice di Vanity Fair. Io, Laura Davies, una semplice ragazza di paese, viceredattrice di un simile rotocalco. Stentavo a crederci, ma la vita, dopo tanto dolore, mi stava riservando delle sorprese inverosimili. Respirai profondamente, osservando attentamente la nube bianca sospesa tra le mie labbra e i guanti di velluto. Un'altra estenuante giornata di lavoro era giunta al termine e di lì a poco sarei dovuta andare a recuperare Noah all'asilo. Estrassi il cellulare dalla tasca, gettando un'occhiata distratta all'orario: indugiai alcuni istanti sul tasto di sblocco e dopo poco vi premetti, lasciando spazio alla deliziosa foto di noi tre scattata proprio su quella panchina. Eravamo così felici, così pieni di vita e di energia. Quell'istante sembrava congelato in un tempo nel quale io ed Harry credevamo davvero che le cose sarebbero potute durare e che avremmo potuto seriamente fare del nostro amore la nostra fortuna. La realtà, tuttavia, era ben diversa: le nostre vite erano radicalmente opposte. Certo, il nostro amore andava al di là di ogni razionalità, ma così facevano anche le ragioni economiche e quelle lavorative. La nostra relazione non era una favola, non era la trama di quelle stupide soap-opera nelle quali la star della musica s'innamora della ragazza di campagna e tutto incredibilmente funziona senza destare alcun sospetto. Harry aveva una sua entità ed io la mia: io volevo fare la giornalista e vivermi quel sogno fino all'ultima briciola. Non avrei trascorso il resto della mia vita come una di quelle compagne che si limitano a nuotare sullo sfondo, accompagnando il proprio uomo ad ogni concerto e dandogli un bacio d'orgoglio al termine del suo magnifico show. Dovevo essere me e non qualcuno che non volevo essere. D'altro canto, Harry era nato per cantare: era la sua vocazione, la cosa che gli riusciva meglio al mondo. Qualcuno gli aveva donato quella grande possibilità e non sarei stata di certo io a strappargliela dalle mani. Ci avevamo provato, l'avevamo davvero fatto. All'inizio dello scorso anno il suo tour promozionale era stato posticipato, il mio ruolo era ancora quello di una tirocinante e gli orari coincidevano perfettamente. Harry restava a casa con Noah, si godeva la vita casalinga, alternata qua e là da qualche incontro con i suoi produttori. Poi, la tempesta: la mia promozione a viceredattrice, le pressioni della casa discografica, il suo desiderio di tornare a cantare. Ci stavamo spezzando, lo sapevo. Stavamo diventando una di quelle coppie che non fa altro che recriminare e gettare addosso all'altro la colpa della propria infelicità. Non potevo permetterlo, non potevo lasciare che gli eventi ci trascinassero alla deriva. Il sentimento che ci legava era troppo grande per poterlo rovinare in una maniera così spregevole. Ho dovuto fermare quel fiume inarrestabile andando al di là del dolore che poteva comportare. Mi sono imposta fisicamente tra i nostri corpi e ho staccato la spina. Di nuovo. Abbiamo pianto, Dio se abbiamo pianto. Abbiamo urlato, sferrato calci contro le sedie, implorato di poter porre fine a quel dolore senza senso. Poi, con occhi lucidi, i nostri corpi si sono fisicamente allontananti, mentre le nostre anime hanno continuato a rimanere connesse.

New York, 14 dicembre 2018.

Una strana luce biancastra illuminò totalmente la stanza. Aprii faticosamente gli occhi ancora appannati dal sonno, assaporando il dolce profumo dei capelli di Noah. Alla vista di quel piccolo batuffolo attorcigliato nel piumone giallo, posai delicatamente le mie labbra sulla sua guancia morbida e rosata, accarezzando estasiata i suoi capelli. Sorridendo, appoggiai poi il mio viso accanto alla sua testolina, ritrovandomi con gli occhi al soffitto. Io e Noah eravamo rimasti soli in quella grande città e seppur fosse difficile da credere, eravamo diventati ancora più uniti di prima. A due anni e cinque mesi Noah era una forza della natura: aveva un modo tutto suo di comunicare, correva per casa in maniera incontrollata ed era sempre pronto a condividere con me la sua barretta di cioccolato preferita. Adorava andare sull'altalena e scorrazzare dietro ai colombi di Central Park. Ogni sera metteva in scena delle conversazioni decisamente pittoresche con i suoi pupazzi, mostrandoli ad uno ad uno nelle videochiamate con i nonni e poi in quelle con Harry. Harry era rimasto il suo punto fisso, nonostante la nostra ennesima separazione. Più volte l'aveva chiamato papà e in quei casi né io né Harry avevamo cercato di fargli cambiare idea. Noah era ancora troppo piccolo per poter comprendere certe dinamiche: non sarebbe stato in grado di cogliere le motivazioni per cui il suo vero padre era morto e quelle per le quali quello che credeva esserlo non poteva vivere con noi. Meritava sicuramente delle spiegazioni, ma non in quella fase della crescita. Per il momento, Noah sapeva di poter contare sulla mia presenza e in cuor mio, ingenuamente, non potevo far altro che sperare che questo fosse quantomeno sufficiente.

Dieci inverni [h.s.]Where stories live. Discover now