Primo inverno, pt uno

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Al diavolo le note e le domande prefissate. Era il mio momento, la mia intervista, la mia occasione per contare qualcosa in quella triste università di paese, dove il meglio che potevi fare era incontrare il contadino più produttivo della valle. Avevo raggiunto quel traguardo dopo tanta fatica, sgomitando per vincere il concorso messo in palio dalla casa discografica. Ero stata derisa da chiunque conoscessi e nessuno aveva creduto nella validità di un simile attimo. Solo io conoscevo l'importanza di quei venti minuti e volesse il cielo, li avrei usati a modo mio.

La sua espressione trasudava sconcerto, quasi come se nessuno nei suoi ventitré anni gli avesse domandato come realmente si sentiva. Aggrottò la fronte, piegando le labbra in una smorfia compiaciuta.

«Stanco, direi, ma è una delle emozioni più belle e piene della mia vita», rispose serenamente «è stato bello poter intraprendere questo progetto senza pressioni, senza che mi riconoscessero soltanto per il mio percorso precedente».

Annuii, percependo chiaramente il sudore delle dita a contatto con il tasto del registratore.

«Senti di aver raggiunto qualcosa di significativo non solo per la tua carriera professionale, ma anche per la tua vita in senso più generico?», continuai, mentre i suoi occhi diventavano sempre più luminosi.

Si portò una mano ai capelli, sistemandoli in maniera disordinata.

«Ahm, credo che sì, fare questo disco, esprimere i miei sentimenti abbia avuto un forte impatto anche nella mia sfera personale», esclamò.

«Del tipo?», abbozzai, rendendomi successivamente conto del grado di coinvolgimento con il quale stavo portando avanti quella conversazione.

Lo scrutai deglutire, incrociando per un istante i miei occhi. 

«Sarebbe meglio attenersi al disco», squittì una ragazza dai capelli biondi e occhiali scuri «è questo che intendiamo sponsorizzare».

Feci per arrossire, portando nervosamente una mano dietro l'orecchio.

«Certo, ehm...», balbettai, riprendendo il foglio oramai appallottolato sotto la gamba destra. 

Stupida, non sei a una seduta psicologica.

«Così, le canzoni spaziano tra diversi generi», ripresi, alzando nuovamente lo sguardo e notando la sua espressione palesemente divertita «in Two Ghosts parli per esempio di un'amore...».

«Dormo di più», m'interruppe, appoggiando una mano al viso «e questo è un grande, grandissimo cambiamento personale».

Lo scrutai per qualche secondo, scoppiando poi in una stramba e certamente goffa risata.

«Questo perché tirar fuori le tue idee, la musica nella tua mente, ti ha concesso di andare a dormire ogni sera contento finalmente della persona che sei?», continuai, il suo volto sorridente ora paralizzato da uno strambo terrore.

Si mosse in maniera concitata sulla poltrona, respirando in maniera pesante.

«Sono sempre stato bene con me stesso», balbettò «così come lo sono ora».

A quella risposta mi paralizzai, perplessa. Voltai lo sguardo alla donnina bionda e tutto mi fu chiaro. Tutte le parole del paese, dei compagni di facoltà. Tutte le derisioni, le frasi d'ironia avevano un senso. Non avrei mai potuto condurre quella conversazione a modo mio. Non avrei mai raggiunto il cuore di quel ragazzo o fatto per la prima volta la storia in quello stupido e desolato quadrato di costa inglese. Non sarei mai riuscita a brillare di luce, non sarei mai stata notata da una persona così tanto distante da me. Non in quel momento.

E tutto aveva un senso.

Dieci minuti dopo stavo raccogliendo mestamente il cappotto e la borsa dal tavolo poco distante.

Dieci inverni [h.s.]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora