4 - Prigione d'Amore

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Stefan:

La sera era scesa su quell'improbabile giornata, dalle tende che svolazzavano lente, entrava solo oscurità mista alla luce delle stelle, portata da un soffio d'aria lieve che mi carezzava la pelle.

Me ne stavo supino con gli occhi aperti a vegliare, con la mente sveglia a pensare, e con le dita della mia mano destra mobili e lievi che le carezzavano l'attaccatura della fronte mentre dormiva. La spalla e il viso abbandonati sul mio torace, il suo corpo morbido e potente contro il mio.

Ero nei suoi sogni inquieti, la vegliavo ai margini della coscienza.

Non mi era piaciuto per niente, avevo odiato le ultime ore. Rifiutate.

Non ero io quest'essere spezzato a metà fra brama e sentimento, fra angoscia e tenerezza.

Non ero io perché non potevo provare questo per lei. Non di nuovo.

A questo punto delle cose avrei quasi preferito che ci fossimo lasciati andare: io al desiderio bruciante alimentato dalla fame, e lei ai suoi giochi al massacro con i miei sentimenti.

Invece non era andata affatto così, dopo centosessant'anni avevo conosciuto veramente il lato più profondo e nero di Katherine Perce, e si chiamava Katherina Petrova.

Non avevo dovuto scoprirlo, sondarlo, perdermi nella tenebra, cercando un po' di luce per esplorare, capire. Le parole: le stesse che lei non aveva mai pronunciato con me, e forse neppure con sé stessa. Erano fluite come un rigagnolo che si faceva strada faticosamente in mezzo a una diga di ciottoli. Timide, avevano risuonato per ore alle mie orecchie, come un bisbiglio. La loro musica di sottofondo, era stata il rumore stordente delle sue lacrime composte, quasi dure, mentre continuava a parlare.

Io ascoltavo, potevo fare solo questo, sentivo che dovevo fare solo questo: ascoltare.

Ma soprattutto capire.

Capire che, nonostante tutto, sillaba dopo sillaba legata a quel dolore, trattenuto, e a volte rabbioso, come anche struggente e infinitamente triste, si stava ricreando la catena del mio legame con lei. Ogni anello affondava nel cuore con un dolore, e vi si aggrappava.

La fame ruggiva, volevo smettere di provare, questi nuovi sentimenti così dilanianti, mi stavano ferendo.

Forse era tutto falso e aveva il colore cremisi del liquido che ruggiva in me. Era meno tormentoso pensarlo.

Allungai la mano sul comodino al buio svelato della notte, e afferrai il calice che prometteva sollievo alla mia gola; mentre, bevevo piano, il nettare denso, il sapore speziato, ferroso e dolce, mi appagava, ma non come un respiro profondo accordato al mio.

Non poteva essere, non doveva.

Eravamo finiti sul letto, non come ci si sarebbe aspettato da noi due: né dai passati amanti, né dai nemici attuali. Non un tuffo urgente di desiderio. Non un tonfo secco durante uno scontro rabbioso.

Si era addormentata sul divano come una bambina, esausta dalle sue tristezze, a cui, non si erano ancora asciugate le guance, bagnate dalla sofferenza, L'avevo presa in braccio e portata a dormire, ma non c'ero riuscito.

E mi stavo odiando, per questo, nella mia razionalità.

Non ero riuscito a lasciarla al suo riposo, mi ero steso con lei, vinto dalla voglia di vegliarla, lenire, con carezze delicate, l'angoscia ancora dipinta sulla sua fronte contratta.

Io, Stefan Salvatore avevo fatto appello a tutto il mio rinnovato Potere, una foschia irreale ammantava la casa, non un rumore molesto turbava il suo sonno, come nessun incubo, scacciato prontamente da me.

Stefan Odyssey||Steferine/DelenaWhere stories live. Discover now