00:00

133 13 6
                                    

«Diavolo...» continuava a borbottare il biondo, tenendosi dolorante le parti basse, colpite violentemente da una trave che aveva alzato, in fretta e furia e per sbaglio, con il suo piede destro.

Ora, la lunga asse dal colore scuro era a terra, staccata e messa in posizione diversa da quella del foro che, fino a qualche istante prima, era suo compito proteggere.

«Tutto ok?» si avvicinò rapidamente Jonathan, piegandosi accanto al ragazzo dolorante.
Quest'ultimo lo guardò male, alzando un sopracciglio: «Sì, guarda: sbattere le palle su un fottutissimo pezzo di legno non fa male eh, tranquillo.» gli disse, alzando le iridi marroni al cielo, incontrando così il marrone del vecchio tetto.

Il riccio scosse la testa, ridacchiando, prima di alzarsi in piedi e pulire i palmi delle sue mani sui suoi jeans, porgendo poi a Kevin una di esse, «Non ti smentisci mai, eh?» ridacchiò.
Il biondo sbuffò e, sebbene dolorante, accettò l'aiuto afferrando la mano dell'altro e mettendosi in piedi.

La mano la sciolse subito da quella dell'altro, mettendosela in tasca e girandosi, così da raggiungere le amiche e riuscendo a evitare le iridi color prato del riccio alle sue spalle.

«Cosa avete trovato?» chiese con voce bassa, dato che, già di suo, non amava urlare.
I suoi occhi osservarono le mani delle ragazze armeggiare e accarezzare la superficie della scatola sulla quale un'enorme scritta occupava tutto lo spazio del coperchio.
Essa era di colore giallognolo, rovinato.
Sembrava molto vecchia e, quasi quasi, misteriosa.

Le due non risposero, permettendo alla tetra atmosfera di volteggiare nella stanza, coma una silenziosa ballerina: non viene calcolata troppo, nessuno la pensa nel profondo, ma alla fine è presente e, prima o poi, avrebbe fatto il suo grande numero.

Kevin si sedette accanto alla corvina, che si passava nervosamente una mano trai neri capelli, come se avesse ansia per qualcosa.
Vide i suoi occhi analizzare a fondo, attentamente, quella scatola, come se qualcosa di spaventoso potesse uscire da essa.

Che magari quella splendida serata si potesse rovinare del tutto.

«Che ne dite se la mettiamo a posto e poi ne discutiamo con mio nonno?» propose il ragazzo dagli occhi color nocciola, deciso più che mai a far terminare quel disagio che invadeva Clio.
«E se invece vediamo com'è questo gioco?» fece la rosa, passando un dito sul nome di esso, scritto in lingua inglese.

"The game of Silence"

«Ma...» provó a ribattere Kevin, tentando quindi di far diventare più serena la ragazza dai lunghi capelli neri che, nel frattempo, lo guardava riconoscente.
«Dai, su, piccolo biondo.» intervenì allora l'altro ragazzo, sghignazzando, «È semplicemente il gioco del silenzio, solo con regole più dure, molto probabilmente: non dirmi che hai paura.»

Sentì gli occhi dei propri amici puntati su di sè, ma non ci fece tanto caso, perchè c'era qualcos'altro.

Qualcun'altro.

Sentiva un paio di occhi scalfirgli l'anima, guardarlo nel profondo, osservare il suo baratro, le sue paure, i suoi segreti e i suoi pensieri.
Sentiva passare lungo la sua schiena un brivido, che fece nascere, a sua volta, la pelle d'oca.

Ingoiò a vuoto.
Non poteva avere paura di una sensazione.
Di un qualcosa che, molto probabilmente, non era neanche vero, reale.
Era solo una cosa stupida.
«Certo che no.» affermò allora, afferrando il coperchio e togliendolo dalla scatola, «Facciamo questo stupido gioco, va.»
Non lo fece per dimostrare qualcosa agli altri, ma lo fece perchè voleva dimostrare a sè stesso che lui non era spaventato del nulla.
Lui non aveva paura dell'oscurità.
Non aveva paura del buio.
Non aveva paura del silenzio.

The Game of SilenceWhere stories live. Discover now