Parte 21 - Bella e maledetta

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Ci allontanammo velocemente da Madison, lasciando tutto dietro di noi; la clinica, i miei pazienti abbandonati a se stessi, la piccola Alice in balia dei desideri di Lucien, l'investigatore privato che stava cercando Esme, e che forse non avrebbe rinunciato a seguire le nostre tracce.

Mi trascinai dietro solo la mia angoscia per la sorte misteriosa e inquietante della giovane Alice.

Non so quante volte, nei mesi successivi, indugiai col pensiero su di lei, sul modo in cui mi ero trovato costretto ad abbandonarla, e mi sentii inetto per il mio comportamento. Lasciare qualcosa di incompiuto nel mio lavoro mi faceva sentire inadeguato, come se fossi un perdente. Mi opprimeva un senso di fallimento, e prendevo quest'ultima fuga come un insuccesso assai più personale, che professionale. Non era più solo lavoro, forse non lo era mai stato.

Non era una missione da portare a termine; oltre al riscatto di me stesso, all'evoluzione che tendevo a perseguire nella ricerca di una pace talvolta quasi impossibile, erano scattati altri sentimenti, in qualche modo, più terreni e umani.

Mi sentivo fragile e insoddisfatto, e mi chiedevo se il senso d'imbarazzo non derivasse dalla mia vanità mortificata.

Forse avevo sbagliato fin dall'inizio a prendere tanto a cuore la vicenda singolare di Alice, ma il mio coinvolgimento era stato tale e profondo, che non avevo potuto restare indifferente.

La sua esistenza intrecciata misteriosamente a quella di Lucien mi riguardava troppo da vicino per non sentirmi responsabile verso di lei.

Così, mi ero mosso per evitare ciò che mi sembrava l'epilogo più terribile per la vita di quella fanciulla piena di speranze e sogni per il futuro.

Il vento che spingeva la mia esistenza in direzioni sempre diverse, improvvisamente aveva soffiato dalla parte opposta, e come al solito, non avevo potuto oppormi a ciò che era più forte della mia banale presunzione.

Alla fine, tornavo sempre a fare i conti con la condizione raminga della mia vita.

Non avremmo mai avuto radici, né io, né la mia famiglia. Ero ormai rassegnato a questa costante della nostra tortuosa esistenza. Avrei dovuto evitare di affezionarmi ad un luogo più di un altro, a persone e situazioni contingenti. Ma non so, se per carattere o attitudini, non riuscivo a mantenere la giusta distanza dall'umanità con cui entravo in contatto.

Edward, tra noi, era quello che sapeva mantenere maggior distacco da tutto. Esercitava una fermezza di spirito quasi stoica. Lasciò Madison senza mai guardarsi indietro, come aveva sempre fatto in precedenza.

Senza tentennamenti, obbiezioni.

Un po' gli invidiavo questa sua capacità di adattamento, unita all'apparente freddezza, anche se qualche volta sospettavo che fingesse. Tanta glaciale indifferenza veniva poi tradita da bruschi cambiamenti d'umore e dalle tensioni più o meno intense che si accendevano tra noi.

In alcuni momenti mi pareva di cogliere un' ombra appena velata di tristezza nel suo sguardo, ma durava sempre lo spazio di un istante; dopo, la sua espressione tornava quasi indecifrabile e senza sfumature.

Esme era senz'altro quella che soffriva di più, almeno agli inizi; le dispiaceva interrompere nuove attività avviate con successo e zelo, non finire un trimestre scolastico in dirittura di arrivo, ma non protestava mai, perché comprendeva sempre la situazione che si presentava ogni volta.

"La tua comprensione cara, è un sollievo enorme per me. Sei davvero sicura che questi repentini spostamenti non ti pesino? Puoi dirmelo, lo capirei."

"Carlisle, ma cosa stai dicendo? Ho compreso da tempo la situazione; - e dicendolo, Esme si stringeva al mio corpo guardandomi negli occhi con convinzione. - Certo, all'inizio non è stato facile adattarmi a questa vita. Ma io ti seguirò sempre, perché nessun posto lontano da te, sarebbe casa per me."

Carlisle. L'anima di un vampiroWhere stories live. Discover now