Parte 24 - Sconfitta e tragica fragilità

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Trascorse un tempo che parve interminabile, una parentesi di vuoto quasi assoluto.

Ricordo un cielo grigio come metallo incombere monotono sul quelle regioni fredde e io restavo per ore, immobile come una roccia a fissare quell'immensità che mi sovrastava. Quella doveva essere la sfumatura tetra della mia esistenza, il colore piatto e avvilente della mia anima smarrita.

Difficile dire come mi fece sentire l'abbandono di Edward. Se fossi stato solo ad affrontare quella pena, senza Esme, senza Eleazar e gli altri amici di Denali, avrei reagito molto peggio di quanto feci in realtà.

E comunque, non fu facile o indolore. Per nessuno di noi.

In maniera differente, tutti abbiamo risentito di quel taglio forzato nelle nostre vite.

I primi mesi di quella separazione li vissi nell'amarezza, nel rimorso e nella frustrazione.

Il fallimento di Edward era anche il mio.

Era soprattutto il mio; il primo, il più grande fallimento che coincideva con il momento esatto della scelta senza ritorno che avevo fatto trasformando Edward.

A pensarci adesso, era molto umano il mio sentire; mi comportavo come un vero genitore che si fa carico degli errori di un figlio, che crescendo deve sbagliare per maturare e comprendere la direzione che vuole dare alla sua vita, ma da cui si pretende sempre la scelta più saggia e giusta.

Mi sentivo profondamente responsabile per la strada che Edward aveva deciso di seguire e continuavo a ripetermi che se dopo tanto tempo, mio figlio aveva ceduto al mostro, era perché io avevo commesso un errore; io non ero stato abbastanza convincente, autorevole. Io avevo mancato, non avevo saputo essere la guida sicura e decisa di cui avrebbe avuto bisogno per non perdere se stesso. In verità, non volevo accettare il fatto che Edward doveva sperimentare da solo quella prova tremenda, doveva scendere nel suo abisso e percorrere il suo tunnel di oscurità per maturare e riconoscersi diverso; doveva incontrare il suo demone per sconfiggerlo davvero, qualcosa che io non avevo saputo fare, o che forse avevo affrontato in maniera diversa, fuggendo.

Nella mia resistenza ero stato davvero più forte, o solo più vigliacco?

Non sapevo rispondere con esattezza a questa domanda. Eppure colpevolizzarsi non avrebbe avuto senso, né avrebbe cambiato il corso degli eventi, ma non trovavo la forza di reagire, di riprendere il percorso della mia vita.

Non mi nutrii per lunghe settimane, tanto che le mie occhiaie diventarono evidenti e marcate. Restavo seduto e immobile su una sedia per lunghe ore con lo sguardo fisso e nero perso oltre il buio della notte che avvolgeva tutto col suo silenzio cupo, interrotto solo dal verso di qualche animale notturno.

Mi passò la voglia di fare qualsiasi cosa, anche tornare a lavorare sembrava un evento pesante che non avevo voglia di affrontare, fatto quasi incredibile, considerata la mia passione per la professione medica. Ero diventato un vampiro apatico, spento, senza più interessi; vagavo attraverso i miei giorni sempre uguali come un fantasma triste che non sapeva dove stare. Quasi non parlavo con nessuno, se lo facevo erano solo monosillabi.

Evitavo i contatti con chiunque e cercavo costantemente la solitudine, un atteggiamento davvero insolito e preoccupante per la mia natura.

Ero quasi irriconoscibile a me stesso.

Non ero mai stato così, e certamente non avevo mai ricercato volutamente la solitudine.

Piuttosto, nei secoli della mia esistenza da immortale avevo tentato di scacciarla, di sfuggirla il più possibile, anche a costo di ricercare compagnie sbagliate e inadatte al mio temperamento. Esme, Eleazar e gli altri si preoccuparono vedendomi tanto depresso.

Carlisle. L'anima di un vampiroWhere stories live. Discover now