Parte 18 - Un altro pezzo del puzzle

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Arrivammo a Madison dopo quasi sette giorni di viaggio in auto, intervallati da brevi soste che facevamo solo per cacciare, o ripararci dal sole che poteva sorprenderci. Durante una sosta nel Nebraska, quasi al confine col Kansas, ci fermammo in prossimità di una vallata verde e rigogliosa; il sole era troppo vivo nel cielo, muoversi sotto quella luce sarebbe stato rischioso, anche se non trovammo quasi nessuno in viaggio lungo quelle strade polverose. Ancora non esistevano le automobili con i vetri oscurati. Ci fermammo all'ombra degli alberi che delimitavano la boscaglia vicina.

Non riuscivo a nascondere una certa eccitazione quasi infantile, considerata la mia veneranda età; l'idea di andare a lavorare per la prima volta in un manicomio mi riempiva di entusiasmo oltre ogni misura. Era la febbre della mia aspettativa che cresceva di ora in ora, mentre macinavamo chilometri per raggiungere la nostra meta.

Era sempre così la mia prima volta in qualcosa, non aveva importanza che cosa fosse.

I manicomi non erano posti idilliaci; non erano certamente famosi come ameni luoghi di accoglienza, tutt'altro. Spesso non erano altro che il regno più torbido della sofferenza. Eppure l'idea di andare a lavorare in uno di questi posti mi elettrizzava e pensavo che avrei potuto portare un valido contributo per migliorare le cose.

Rimanevo stupito e lieto di quanto fosse umana questa mia genuina debolezza; era qualcosa che mi faceva tenerezza, eppure rappresentava una caratteristica preziosa che mi ricordava un po' ingenuamente, che possedevo ancora qualcosa di umano, un nodo insolubile che palpitava dentro di me come una fiammella vitale opposta e contraria all'abisso scuro che avvolgeva il mio spirito, una scintilla che non voleva saperne di estinguersi.

In tali circostanze, le mie emozioni erano così vive, che in nessun modo riuscivo a camuffarle, e non stupivano soltanto me.

"Devo ammettere che mi sorprendi con questi tuoi atteggiamenti... Se non sapessi che sei un vampiro, potrei quasi credere che tu sia umano, Carlisle..."

Commentava mio figlio, e mi pareva di cogliere qualcosa di lievemente ironico e dissacrante nelle sue osservazioni, quasi volesse burlarsi di me.

"Dovresti scioglierti un po' Edward: qualche volta è bello lasciarsi turbare dalle emozioni... farebbe bene anche a te."

"Non l'ho già fatto una volta?" mi rispose sorridendo.

"Alludi a Emy, vero?"

"Sì... Conosci la storia."

Avevamo abbandonato l'auto poco distante, in prossimità della strada e ci eravamo inoltrati attraverso un sentiero nella radura e puntavamo verso l'ombra degli alberi più lontani. Il cielo era terso, solo solcato qua e là da qualche nuvola leggera, pennellate di bianco che sembravano eseguite da un pittore. Era bello, qualche volta, lasciarsi avvolgere da quella luce chiara che rendeva i colori attorno vibranti di riflessi luminosi e vividi.

Nascondersi costantemente nel grigiore autunnale delle giornate umide poteva essere deprimente. Anche un vampiro può aver bisogno di un po' di sole nella sua vita.

"Una volta non basta... Dovresti lasciare che accada più spesso... Non sarebbe così tragico."

Esme, che ci ascoltava sempre attentamente, si intromise, tentando forse di deviare il discorso.

"Chissà come sta quella ragazza; dovrebbe vivere da queste parti..."

Edward guardò Esme per un momento, ma continuò a parlare con me.

"Se lasciassi che le mie emozioni prendano il sopravvento, farei qualcosa di cui ti pentiresti, tu per primo."

"Credi che non saprei impedirtelo?"

Carlisle. L'anima di un vampiroWhere stories live. Discover now