Capitolo 7 - Oxymoron

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 E' tarda notte e il cielo è buio. Axel guida in silenzio, io evito di guardarlo. Il sedile è troppo scomodo, la macchina mi sembra stretta e anche se è Ottobre l'aria mi sembra calda e pesante.
I finestrini abbassati e il vento in faccia non sono sufficienti a spazzar via la fastidiosa sensazione di smarrimento che mi opprime il petto. Da quando siamo partiti mi sembra di lasciare una scia di confusione lungo la strada che percorriamo.
Vorrei essere diretta in camera mia, non in quella del dormitorio. Vorrei trovarmi a Willmar, entrare in quella stanza e sentire l'odore del fumo di tutte le sigarette che per tutte quelle notti ho consumato al posto del sonno. Vorrei dimenticare questa serata e perdermi tra le lenzuola di un letto che conosco meglio del mio, tra i vestiti sparsi che nascondono il pavimento, tra braccia che mi coprono come lenzuola mentre il mio mondo si fa a pezzi, pezzi che vorrei svanissero. Vorrei avere la capacità di rifugiarmi in luoghi che non esistono.
 Penso a quegli occhi azzurri e all'intensità con cui mi hanno guardata, al calore che quelle mani emanavano e al tocco deciso e confortante al tempo stesso.  Ci penso e non riesco a perdonarmelo. Non mi perdono di essermi mostrata debole agli occhi di uno sconosciuto, occhi che non voglio più incrociare. Perché so che mi guarderebbero come tutti gli altri occhi che mi hanno guardata cadere a pezzi ed io di essere guardata in quel modo non ne voglio più sapere. Che di vivere nel passato, e riviverlo, è qualcosa che vorrei smettere di fare. Non mi perdono di  aver lasciato vincere i miei mostri, mostri che da bambini crediamo di trovare sotto il letto. Ma quando cresci capisci che il buio non è là fuori, ce l'hai dentro ed è li che si nascondono, è li che crescono.
«Non mi avevi detto che conoscevi qualcuno al campus », la voce di Axel mi trascina di nuovo su questo sedile in pelle, e ci provo. Provo a non allontanarmi più, provo a smettere di pensare.
«Infatti non conosco nessuno. »
«E Luke? » Lucas.
«L'ho visto una sola volta al night club tre mesi fa », sollevo le spalle e continuo a guardare la strada. Non ho intenzione di avere nessun tipo di contatto visivo con Axel, lo conosco e so che darebbe inizio ad una serie di domande che sono sicura di non voler sentire, e tanto meno dare risposte. Che alla fine di risposte continuo a non averne, per nessuno.
«Ti guardava come se ti conoscesse bene », sento il suo tono di voce più fermo e rigido, rispetto a prima. Che io lavorassi al night club ad Axel non è mai piaciuto, ma non me lo ha mai negato. Non voleva che frequentassi però il genere di persona che si incontra in un posto come quello. Ma per me non era mai stato un problema. Non avevo nessun tipo di rapporto con le ragazze con cui lavoravo, eravamo solo colleghe. Io conoscevo i loro nomi e loro il mio, l'essenziale.
Dylan era un'eccezione, l'unico strappo alla regola. Ad Axel non era mai piaciuto, io non me ne sono mai preoccupata. Non si incontravano quasi mai, sapeva che io e Dylan non stavamo insieme, ma non ne era lo stesso felice.
«Non è così. »
«Lo so ma ti guardava in quel modo », Axel spegne il motore e solo ora mi accorgo che siamo fermi nel parcheggio dei dormitori.  
«Quale modo? Quello con cui si guarda una pazza? » Sorrido, ed è un sorriso amaro. Axel non lo fa. Mi guarda dritto negli occhi e il suo sguardo è duro.  
«Era preoccupato » precisa.  «E lo sono anch'io. »
«Risparmiatevi la fatica », mi volto dall'altra parte, ingoio il nodo che mi si è formato in gola e sgancio la cintura di sicurezza. Axel però mi afferra il polso.
«Ashlie »
«Voglio andare a dormire. »
«Non allontanare le persone Ashlie », tolgo il polso dalla sua presa e apro lo sportello. Sono stanca, delle persone, delle parole, di essere me. «Non allontanarmi.»
Allontanare le persone è l'unico modo che ho per proteggere me stessa dagli altri ma anche gli altri da me stessa. E va avanti da così tanto tempo che mi sembra impossibile non fare altrimenti. E neanche voglio smettere, perche io e le persone non sappiamo non farci male. Quindi preferisco isolarmi, non per chiedere comprensione, non per individuare il problema. Lo preferisco perché la solitudine è l'unica arma che ho e voglio tenermela, voglio usarla. Non mi va di porre fiducia nelle persone e ritrovarmi a tremare con la paura che poi mi ripeterò che non avrei dovuto farlo, trattenendo singhiozzi, urla e pianti. Trattenendo un dolore con cui non voglio più avere a che fare mentre sto in un angolo del letto in posizione fetale, come se solo in quel modo potessi proteggermi da un mondo che non fa per me, un mondo stretto e noioso.
E allora no, Axel. Non smetterò di tenere lontano le persone.
«Buonanotte Axel », scendo dalla macchina e chiudo lo sportello. Non mi volto, non lo guardo, supero il cancello nero ed entro nell'imponente palazzo di  mattoni rossi. Di fronte all'entrata si apre la rampa di scale, a destra c'è una piccola cabina in legno adibita alla portineria. Una spaziosa bacheca è appesa alla parete, tappezzata di volantini.
Salgo i gradini di cemento, uno alla volta, fino al terzo piano. Mi avvicino alla 34C, metto le chiavi nella toppa e apro la porta. È solo la seconda volta che metto piede in questa camera, la prima è stata questa mattina, quando ho portato le mie cose con Axel. Cose che sono raccattate ancora nella mia parte della stanza. È tutto come questa mattina, i letti ai poli opposti della camera, il mio è a sinistra, vicino ad una grande finestra. Davanti al letto c'è la mia scrivania e una piccola libreria a parete. Dall'altra parte è lo stesso, e c'è una porta che conduce al bagno. A differenza di questa mattina però non sono sola, la lampada sull'altra scrivania è accesa sopra un libro e sulla sedia c'è una ragazza dai capelli corti e scuri.
«Bentornata, non sapevo a che ora saresti tornata e ti ho aspettata », la sua voce limpida risuona forte tra le pareti grigie, assorte nel silenzio della notte fino ad un attimo fa.
«Perchè? », lascio la giacca sul letto e mi ci siedo. Tolgo una scarpa, poi l'altra. Lei mi guarda dalla sua postazione, con un paio di occhiali dalla montatura nera che le ricadono sul naso.
«Volevo presentarmi, condivideremo la stanza per l'intero anno. » Come dimenticarlo. Io e un'estranea sotto lo stesso tetto, dentro le stesse mura, sette giorni su sette.
«Mi chiamo Kyla », sorride e forse è la stanchezza, o il mal di testa, ma io abbasso lo sguardo. Non ho voglia di parlare a quest'ora. Non ho voglia di stringere amicizia, in generale.
«Ashlie », è l'unica cosa che dico mentre lei annuisce. Io lascio il mio letto, recupero un paio di shorts e una maglia comoda dalla valigia e vado a cambiarmi.
Al mio ritorno lei è ancora lì, ma adesso il libro è chiuso e lo schermo del suo smartphone è acceso. Segna le due. La supero e mi dirigo al mio letto.
«Vuoi una mano per sistemarli?» La guardo e vedo il suo dito indicare la valigia e lo scatolone accatastato all'angolo. Scuoto la testa. Non ho intenzione di fare nient'altro per oggi. Voglio solo mettermi a letto e sprofondare tra le lenzuola, che di questa giornata ne ho abbastanza. E anche fosse, potrei benissimo farlo da sola. Che se ho imparato una cosa, è che sola so già farle benissimo male le cose. Non ho bisogno che qualcun altro ci metta del suo. Ed è la dimostrazione che io stessa sono il più grande ossimoro della mia vita.
«Lo farò domani » le dico, lei annuisce ancora una volta per poi a passi svelti mettersi a letto. Si infila sotto le coperte e sparisce all'interno di esse, alzandole fin sopra il naso.
«Buonanotte Ashlie » sussurra e io ricambio, per poi imitarla.
Il mio corpo è intrappolato tra il piumone e il materasso, sento il calore diffondersi e la tensione abbandonare i miei muscoli. Mi godo il silenzio, e resto con lo sguardo rivolto al soffitto buio. Sento la stanchezza travolgermi e e gli occhi appesantirsi, ma poi il ricordo di una voce calda che mi sussurra all'orecchio mi tiene in bilico tra sogno e realtà.
"Non preoccuparti, adesso passa."
No che non passa, non passa mai.

Past. || l.h.Où les histoires vivent. Découvrez maintenant