Capitolo 6 - Phobia

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Una voce che ricordo. E ricordo quella notte di tre mesi fa come se fosse ieri, una notte insolita.
Una di quelle notti che sarebbe potuta essere come tutte le altre, ma non lo è stata. Una notte in cui avrei voluto perdermi nel buio tenebroso del cielo, tra il silenzio e il caldo, per dimenticarmi di cose che il giorno del tuo compleanno forse risultano un po' più taglienti. Ma così non è stato. Che godermi il silenzio è stato impossibile, perché quella voce mi ha accompagnato tutto il tempo senza che io glielo chiedessi, senza che sapesse di star facendo parte di uno dei momenti più pesanti della giornata.
Ricordo anche quel senso di scomodità, il disagio persistente. Lo stesso disagio che adesso, alzando lo sguardo e incontrando il suo, sento attanagliarmi lo stomaco.
«Io non lo avrei detto di certo » dico, e lui invece mi guarda dall'alto, con un sorriso sul volto.
«Io invece, per assurdo, un po' ci speravo », sorride ancora e beve un sorso della sua birra. Questa volta il buio non incombe su di noi in modo insistente, questa volta non si tratta solo di fugaci ombre e sagome impercettibilmente illuminate dai lampioni. E questa volta posso guardarlo senza nessun ostacolo, e non m'importa che anche lui possa vedere me. Voglio guardarlo e voglio dare un volto ben definito alla voce che mi ha parlato quella sera. Alla voce che mi ha tenuto compagnia anche quando ero scappata di lì, quando ero nel mio letto ma continuavo a sentirla.
I capelli lunghi e biondi, occhi azzurri, labbra rosee e alla vista morbide, la barba troppo corta per essere notata in un primo momento. E non parla, la voce non la sento, e non mi sembra lo stesso di quella notte. La sua andatura, il suo modo di vestirsi, non sembrano appartenere a quel tipo di persona che alle due di notte riflette sull'amore e sul tradimento.
Beve un'altra volta, si guarda intorno e poi mi affianca. Questa volta non me lo chiede, si siede e basta. E all'improvviso sento quest'amaca farsi scomoda, troppo stretta per due persone. Provo a mettere un po' di distanza, ma invano. Il suo ginocchio è contro il mio.
«Cosa ti porta da queste parti? »
«Il college » la mia voce risuona fredda e vuota come sempre, ma più brusca. È troppo vicino, e so che non sopporterò a lungo questa vicinanza.
«E tre mesi fa cosa ci facevi a centosei miglia da qui? »
«Ci vivevo. »
Lui posa i gomiti sulle gambe e si piega in avanti, ponendo fine al movimento dell'amaca.
Continuo a sentire invadente la sua vicinanza. Lui indossa una giacca jeans, in contrasto con la mia giacca di pelle nera. Le nostre spalle si toccano.
La sua schiena è ricurva, è a suo agio, sta bene. La mia schiena è tesa, come ogni parte di me. Non sono a mio agio, e l'aria qui fuori non mi sembra più abbastanza adesso che siamo in due.
Si susseguono attimi di silenzio, pianto gli anfibi neri sul prato, e questa volta sono io che faccio muovere l'amaca.
«Mi stavo chiedendo » il suo viso è molto vicino ai miei capelli, all'altezza del mio orecchio, la sua spalla spinge contro al mio braccio, « per sapere il tuo nome, devo lasciartelo incidere su quest'amaca? »
Forse se non fosse stato così vicino, se la sua voce non mi avesse fatto venire i brividi, forse avrei sorriso. E invece mi alzo.
«Ashlie », tiro fuori il pacco di sigarette, lo sguardo di Lucas puntato addosso però rende anche una semplice mossa come portare alle labbra una sigaretta dieci volte più faticosa di quanto non sia mai stata. Riesco ad accenderne una, e aspiro. Faccio appena in tempo ad allontanarla dalle labbra e buttar fuori il fumo, prima che Lucas me la strappi di mano e la getti a terra, posandoci sopra la scarpa.
«Cosa diavolo fai ? » Non mi scompongo, non urlo, semplicemente lo fisso. Lo vedo confuso e so che sta cercando di mascherarlo, so che la sua confusione è dovuta alla mia assenza di reazione.
Ma non m'importa. Ho smesso. Ho smesso di reagire alle cose, alle persone. Ho smesso di sprecare fiato, voce, lacrime. Ho smesso, e non ricomincerò di certo adesso, solo perché qualcuno, che si sta annoiando ad una festa, pensa bene di infastidirmi.
Lo guardo ricomporsi, si passa una mano tra i capelli e solleva le spalle.
«Salvo i tuoi polmoni. »
«Non ti hanno chiesto di farlo » ribatto.
«Forse loro lo fanno ma sei tu che non vuoi sentire », la conversazione prende una piega assurda, e non ho voglia di perdere tempo. Il senso di disagio è stato sostituito da fastidio. Decido che è il momento di andare, così gli do le spalle e mi allontano.
«Dove vai? » Gli sento dire. Non mi volto, non lo guardo, semplicemente continuo ad allontanarmi.
«Via. »

Past. || l.h.Where stories live. Discover now