Capitolo 3 - What about love?

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Sono le due di notte e il locale ha chiuso.
Solitamente chiudiamo molto più tardi, ma oggi no. Oggi è stata una Domenica diversa, e Jon ha deciso di mandarci a casa prima. Che secondo lui qualche ora di sonno in più ci può solo far bene, ma non a me. Tornare a casa non mi porterebbe nessun vantaggio, che di andare a casa e soffiare sopra ad una candela rosa non mi va, che non ho avuto niente in questi vent'anni che valga la pena di essere festeggiato.
Così attraverso e raggiungo il parco. Spesso mi sono chiesta chi abbia avuto la brillante idea di costruire un night club davanti ad un parco per bambini. So che non è stato Jon, che lui è solo l'ultimo dei tanti proprietari di questo locale.
Alcuni punti sono scarsamente illuminati dalla fioca luce dei lampioni, alcuni dei quali funzionano ad intermittenza, altri punti invece sono completamente avvolti dal buio. Le tre torri in legno sono sempre lì, al centro del parco, collegate tra loro da piccoli ponticelli mobili. Una delle torri ha lo scivolo, mentre l'altra una scaletta. È simile al castello che c'era nel parco dove mia madre mi portava da piccola, in California, quando era all'inizio di una nuova relazione e si divertiva a giocare alla famiglia felice.
Le altalene smosse dal vento emettono un cigolio insidioso ed inevitabilmente penso a quanto possa apparire uno scenario piuttosto macabro e non adatto a chi, come me, non ama particolarmente il buio. Ma conoscere bene ogni angolo di questo parco mi impedisce di scappare a gambe levate, difatti, per quanto apparentemente inadatto, lo reputo il mio piccolo pezzo di paradiso, quello in cui posso perdermi per qualche ora quando le mura di casa si fanno troppo strette, quando ho bisogno di cambiare aria.
Di questo posto mi piace il fatto che di giorno abbia tutt'altro aspetto: un posto colorato e affollato, pieno di colori e privo di ombre. Mi piace perché in fin dei conti funziona così per molte cose: la notte è fatta per mostrare il lato che durante il giorno non mostreremmo mai e fare cose che durante il giorno non avremmo mai il coraggio di fare.
E mi piace confondermi tra le ombre di questo posto, nella notte, tra il silenzio interrotto dal cigolio di un'altalena o il fruscio delle foglie. Mi dirigo ad una delle panchine che danno sulla strada e non m'importa dell'ora, non m'importa che Axel sia a casa ad aspettarmi. Non m'importa di aver rifiutato il suo invito a festeggiare insieme il mio compleanno, che di fingere sorrisi questa sera non ne avevo proprio voglia, e avevo ancora meno voglia di vedere quello sguardo che fa lui. Quello che odio, quello che sembra rivolgere a qualcosa che possa rompersi da un momento all'altro, e invece guarda me. Non mi piace essere guardata in quel modo da nessuno.
Mi ero illusa che cambiandpo città ci sarebbe stata una tregua dagli sguardi pietosi, e invece sono stata solo una sciocca. Perché ogni volta che Axel mi guarda io lo vedo. Vedo i sensi di colpa per qualcosa che non ha fatto, vedo la paura di perdermi di nuovo, vedo la compassione. E le immagini del passato tornano a scorrere veloce: i bisbigli nei corridoi della scuola, le occhiate rivolte in mensa o durante le lezioni, gli sguardi pietosi e quelli invece maligni. Tornano sempre, fino a soffocarmi. Cose che non vorrei vedere mai più nello sguardo di nessuno.
Inizio a fumare e prima che me ne accorga le cicche si accumulano ai miei piedi, mentre io guardo l'insegna del locale spegnersi definitivamente. Jon è sempre quello che se ne va per ultimo, dopo aver messo a posto le ultime cose e aver finito il resoconto della serata.
L'improvviso calpestio del terriccio rompe il silenzio ed inevitabilmente il mio corpo si mette in allerta. Vorrei che non reagisse così al minimo rumore, vorrei saper gestire meglio la paura che invece riesce sempre a prendere il controllo del mio corpo. E non sono bastate le lezioni di boxe, o quelle di autodifesa. In momenti come questo nulla conta, perché sembra che i miei polsi siano ancora intrappolati in quel metallo freddo e le mie caviglie tenute ferme dalle catene.
Prima che io possa elaborare qualsiasi altra cosa, d'un tratto qualcuno esce dall'ombra: una figura alta e snella, che non riesco a distinguere bene fino a quando non si espone sotto la luce di un lampione. Così lo vedo, e riesco a riconoscerlo, lo stesso ragazzo che poche ore prima era fermo al bancone.
Non trattengo lo sguardo su di lui a lungo, perché non è affar mio il motivo per cui è qui, così torno ad osservare le poche macchine che passano a quest'ora della notte. Nonostante i miei occhi non siano rivolti a lui, altresì non posso dire dei miei pensieri: è ancora fermo, il suo sguardo puntato su di me e riesco a percepirlo. Si muove, i suoi passi si fanno sempre più vicini, fin troppo, poi si ferma.
«Posso? » Ha una voce profonda e ferma, gli dà l'aria di essere uno molto sicuro di sé e per quanto io possa saperne, magari è davvero così. Io, dal mio canto, non mi volto a guardarlo. Perché ricordo ancora i suoi occhi azzurri visti poche ore prima, e c'è qualcosa in quei occhi che non riesco a capire e non mi piace. Non mi piace niente che io non possa tenere sotto controllo.
«Ci sono molte altre panchine qui intorno. »
«Però questa è la mia panchina » ribatte, per poi sedersi. Sento l'irrefrenabile istinto di alzarmi e spostarmi da un'altra parte, ma non ne ho voglia. Mi giro a guardarlo e lo vedo. Vedo ancora quel qualcosa nel suo volto che mi fa sentire a disagio, e vorrei che se ne andasse. Vorrei che non avesse mai fatto irruzione nella mia bolla.
«Non sapevo ci fosse scritto il tuo nome. »
«Anche se fosse, non potresti saperlo », ride e lo fa con gusto. La sua risata mi entra in testa e si ripete più forte. Una risata spontanea, sincera, senza alcuna malizia. Solo divertimento. «Dovresti chiedermi come mi chiamo, prima. »
Trattengo per un attimo il respiro, sorpresa dal fatto che si ostini ancora a rivolgermi la parola. Non sono una che infonde sicurezza, gli sconosciuti per strada non mi guardano in modo amichevole, non mi sorridono, non si fermano a scambiare quattro chiacchiere con me. Non lo fa più nessuno da tanto tempo. E a me va bene così. A me degli altri non importa.
Non mi smuovo, non sorrido, non dico niente. Ma lo guardo con la coda dell'occhio, tranquilla del fatto che la scarsa luce mi permetta di farlo senza essere notata. Che l'oscurità sa essere nostra complice, così come sa diventare la nostra più temibile rivale.
Ha un viso scolpito, le ombre che ricadono sul suo volto lo fanno apparire scavato e con gli occhi un po' stanchi, o forse a renderlo stanco non è quel gioco di ombre, ma la chiamata di ore prima. Chiamata sui cui inevitabilmente cade il mio pensiero.
«Sei qui da molto tempo? » Mi prende alla sprovvista mentre inquadro i suoi capelli, ricci e lunghi, disordinati.
«Forse », non so come e quando questa conversazione abbia avuto inizio e non mi importa. Sono qui perché delle parole ne ho abbastanza, non ho voglia di conversare con nessuno. Non sono in cerca di nuove amicizie, non sono in cerca di guai.
Il silenzio si appropria poco a poco dello spazio, ed io mi ritrovo a guardarlo ancora. Il volto è coperto da una leggere barba ispida e, nell'angolo destro del labbro, sempre esserci un piccolo segno, quasi invisibile, come se precedentemente ci fosse stato un piercing.
Sento l'aria farsi pesante e la vicinanza con questo estraneo mi fa sentire scomoda, a disagio. Afferro le sigarette e, quasi con movimento meccanico, ne prendo una e la porto alle labbra, mentre con la mano sinistra recupero l'accendino dal fondo della tasca.
Cerco di perdermi in quella sigaretta e mi immagino quello che immagino sempre. Immagino di dissolvermi nell'aria proprio come il fumo che esce dalla mia bocca, ma il vento mi sbatte in faccia la realtà e io lo so. Lo so che non sono fumo, so che sono molto più simile alla sigaretta che ho tra le dita, una sigaretta che si brucia pian piano. Una sigaretta consumata, così mi sento.
«Non saranno troppe? » Parla ancora, portandomi a puntare lo sguardo su di lui. Lui però non guarda me, il suo sguardo scettico è puntato sulla sigaretta.
«Per quanto ne sai tu, potrebbe essere la prima. »
«Potrebbe », solleva le sopracciglia, sorride. «Ma le cicche ai tuoi piedi la dicono lunga. »
Sollevo le spalle e riprendo a fumare.
«Non dovresti passare la fine del weekend a contare quante sigarette fumano gli estranei al parco », aspiro le ultime due boccate di fumo, poi ciò che resta della sigaretta raggiunge le altre sul terriccio.
«Non mi resta molto altro da fare » sorride, ma percepisco amarezza nella sua voce, nelle sue parole, persino nel suo sguardo. Ed è questa a spingermi a porgli pacchetto di sigarette, perché non conosco altro modo per curare i mali. Non che a me abbia mai sortito alcun effetto, ma dicono che a qualcuno torni utile.
«No grazie, ci tengo ai miei polmoni. »
«Quel tono accusatorio non serve a niente, puoi risparmiartelo », ritraggo la mano, forse con un gesto fin troppo fulmineo.
«Penso solo che sia un modo di merda per buttare all'aria la propria vita, oltre che i propri polmoni », il suo tono di voce è così pacato, come a volersi giustificare, ed un po' mi irrita.
«Ognuno di noi si distrugge con le proprie mani, cambia solo il mezzo. Scommetto che lo fai anche tu, non fingere che non sia così », incrocio le braccia al petto e mi lascio scivolare sulla panchina. Allungo le gambe fino ad appoggiarle alla ringhiera in ferro battuto, chino la testa all'indietro e vedo il cielo, così buio e pieno di stelle. Sento il ragazzo accanto a me muoversi.
«Pensi sia uno stronzo, vero? »
«Non me ne frega un cazzo del parere di uno sconosciuto, tranquillo non smetterò di fumare a causa tua. » Lo sento ridere, ma poi è un susseguirsi di attimi di silenzio. Un silenzio che non mi fa più stare bene, un silenzio pesante, un silenzio che non è più mio. Un silenzio che ancora una volta è lui a spezzare.
«Cosa ne pensi dell'amore? »
«Non ci penso », ed è vero. L'amore non esiste per chi è sempre stato senza. L'amore è qualcosa di cui si legge nei libri, un po' come i lupi che mangiano le nonne e buttano giù case di fieno.
«E del tradimento? » Lo guardo, ma lui sta guardando il cielo. Il suo volto è rilassato, in attesa di risposte. Risposte che non so dare, risposte che vorrei tenere per me. Ma non lo faccio.
«Tradire è la cosa più insensata al mondo. Supponiamo che l'amore esista », e mi fermo. Perché è stupido. Perché non si può parlare di qualcosa che non si conosce. Ed io l'amore non l'ho mai conosciuto, di nessun genere.
«Continua, ti prego », mi supplica con le parole e con lo sguardo.
«Nessuno dice che un giorno non possa finire, ma ciò non significa che il tradimento possa essere una soluzione, o una giustificazione. »
I nostri occhi si tengono in contatto. L'oscurità mi impedisce di riconoscere il colore dei suoi occhi, ma non mi impedisce di scorgere dell'interesse. Come se la sua vita dipendesse da ciò di cui stiamo discutendo.
«Spiegati meglio »
«Se ami non tradisci, se non ami più sei libero di andartene. Il tradimento è per i codardi, per quelli che hanno paura di affrontare la realtà. »
Per quelli come me, non lo dico mai lui sembra sentirlo. Il suo sguardo diventa pesante all'improvviso e distolgo lo sguardo, che guardare il cielo è meglio. Che sta sempre lì, sa ogni tua mossa ma non ti giudica mai. Le persone sì. Le persone lo fanno anche senza sapere, lo fanno sempre.
«L'hai tradita? » Non m'interessa davvero, voglio solo che smetta di guardarmi. Voglio che rivolga la sua attenzione a qualcosa che non sia io, o i miei pensieri.
«No. » È la sua unica risposta, e me la faccio bastare. Che tanto adesso il suo sguardo è puntato altrove e va bene così.
«Comunque, in alto a destra. »
«Cosa? »
«Nella panchina, in alto a destra, proprio dietro la tua schiena. » E allora capisco, ma non mi sposto. Nello stesso momento sento il telefono vibrare e so che si tratta di un messaggio, so che il destinatario è Axel, e so che mi chiede di tornare. Però non rispondo.
«Tu invece non hai di meglio da fare durante il weekend anziché versare drink e fare da spettatrice alla triste vita di chi sta dall'altra parte del bancone? »
«Non mi resta molto altro da fare » imito la sua risposta e lui ride, mentre il mio telefono inizia a squillare. E allora rispondo, che di leggere il nome non ne ho bisogno. Sento la voce di Axel, la sento stanca e rauca. Lo sento chiedermi dove sono finita e vorrei saperlo anch'io. Lo sento chiedermi di tornare a casa, lo sente anche il ragazzo che ho accanto. Acconsento, perché la stanchezza che ho sentito nella voce di Axel la sento anche dentro le mie ossa, e chiudo la chiamata.
«Tutto bene? » Me lo chiede mentre mi alzo.
«Devo andare », prima di voltargli le spalle però, guardo dove poco prima era posata la mia schiena, in alto a destra: LUCAS.
È inciso sulla pietra a caratteri abbastanza grandi da permettermi di vederlo anche a questa distanza. So che mi sta guardando, così mi fermo un attimo. Lo guardo e lui ha un mezzo sorriso dipinto sul volto.
«Lucas, dovresti farci mettere su una targa, per evitare alti spiacevoli disguidi. »
«A volte li trovo interessanti, i disguidi » lo dice prima di esplodere in una risata silenziosa, mentre io riprendo a camminare.
«E comunque ne sai troppo sul tradimento per essere una che all'amore non ci pensa! »

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