Gabriele

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Prima di entrare in ospedale, mando un sms a Liz, avvisandola che il nostro appuntamento per il pomeriggio è rimandato, dato che la mia giornata libera è andata ai carboni.
Quando metto piede in quella che è ormai la mia seconda casa, mi accorgo subito dell'eccessivo movimento.
"Dottor Rossi, ben arrivato. Faccia presto, come vede c'è un po' di caos stamattina, ci servono quante più mani possibili."
"Che succede?" Chiedo al mio capo.
"Incidente stradale, quattro persone in ognuna delle due macchine coinvolte. Si occupi della bambina lì infondo, sembra essere una di quelli che ne sono venuti fuori meglio, ma è meglio accertarsi che sia realmente così, in questi casi. Proceda con tutte le analisi del caso."
"Sì, subito, dottore." Dico, infilandomi il camice.
Mi dirigo verso la bambina seduta su uno dei lettini dell'ambulatorio.
Sta piangendo e qualche goccia di sangue le cola da un taglio sulla fronte. Se non si sono ancora occupati di lei non immagino le condizioni degli altri feriti.
"Ciao, piccola. Io sono il dottor Rossi e mi occuperò di te. Per ora sistemiamo questo taglio e poi faremo un po' di analisi per verificare che tu stia bene."
"Come stanno mia mamma e mio papà?" Chiede lei. "Li hanno portati in un'altra ambulanza e non li ho più visti."
"Mi informerò e ti farò sapere ma sono certo che un sacco di medici bravissimi si stiano prendendo cura di loro. Non devi avere niente di cui preoccuparti."
"Stavamo parlando della nostra vacanza di Natale quando..." La voce della bambina si rompe.
Mi siedo su uno sgabellino affinché i miei occhi siano alla stessa altezza dei suoi. "Ascoltami, tesoro, so che sei spaventata, ma vedrai che andrà tutto bene. Ora dobbiamo accertarci che tu stia bene e ricucire questa ferita. Farà un po' male, dovrai tenere duro per qualche minuto."
Lei annuisce, ancora con le lacrime sulle guance.
Quando comincio ad operare su quello che scopro essere un taglio più profondo di quanto sembrasse, la piccola stringe le mani al mio camice. "Quanti anni hai?" Le chiedo, cercando di distrarla.
"Sei."
"Oh, allora stai frequentando la prima elementare." "Sì."
"E ti piace?"
"Sì, mi piace molto."
"Bene, perché hai ancora un po' di anni di scuola davanti a te, se non ti piacesse sarebbe un vero problema."
"Mio fratello Ale dice che dopo qualche anno comincerò ad odiarla." "Lui è più grande di te?"
"Sì. E' anche lui qui, da qualche parte. Hanno detto che si era rotto una gamba, o qualcosa del genere. Però lui stava bene, come me. Mamma e papà, invece, avevano gli occhi chiusi." Dice e la voce le trema sulle ultime parole.
"Tu ti senti bene?" Le chiedo, un po' preoccupato dalla profondità della ferita.
"A parte il fatto che sono terrorizzata e che ho un forte male alla testa sto bene."
"Ti fa male la ferita?"
"Non so dirlo, mi fa male ovunque."
Annoto nella mia mente di farle una tac il prima possibile. E' probabile che sia solo indolenzita a causa dell'urto, della ferita e dei punti, ma è meglio non rischiare.
"Io mi chiamo Carla, e tu?"
"Gabriele."
"Anch'io voglio fare il dottore quando sarò grande."
Faccio un sorriso. "Davvero? E perché?"
Lei alza le spalle. "Mamma guarda una serie TV dove ci sono tantissimi medici e mi piace come lavorano."
Il mio sorriso si allarga. Scommetto che parla di Grey's Anatomy.
Quante vittime ingannerà ancora quel programma? "Oh, capisco."
"Io sarò un bravo dottore. Come te."
"Io sono un bravo dottore?"
"Sì, ti stai prendendo cura di me."
Finisco di cucire e stacco il filo. "Qui abbiamo finito, piccola. Ora dovrai aspettare il tempo di preparare la sala per qualche analisi di controllo e poi sarai a posto."
"Faranno male?"
"No, non farà male. E poi tu sei una bambina coraggiosa, Carla. E quando avrai finito le analisi ti farò sapere come stanno mamma e papà."
Lei fa un sorriso. "Grazie, dottore."
"Non c'è di che." Le dico, facendole una carezza sulla guancia.
Mentre le sorrido, vedo nei suoi occhi farsi strada un'espressione di dolore. "Dott..." Comincia, ma poi perde i sensi tra le mie braccia.
Maledizione.
Avverto subito il neurologo e nel frattempo controllo il polso della piccola, che fortunatamente, seppure piuttosto debole, si sente ancora.
"Che è successo?" Chiede la dottoressa Alfredi, dopo solo qualche minuto. "Le ho ricucito la ferita sulla fronte e la stavo facendo attendere per delle analisi per controllare che fosse tutto a posto. Stavamo parlando, sembrava non avere lesioni gravi."
"Vista la ferita, direi che molto probabilmente è un'emorragia cerebrale. Dobbiamo portarla subito in sala operatoria. Ci pensiamo noi, lei resti qui e si occupi degli altri pazienti."
"Mi faccia sapere come va l'intervento." Mormoro, ben conoscendo la complessità dell'operazione.
"Sì." Dice e spinge via la barella, portando via Carla.
Ci metto qualche secondo a riprendermi dallo shock che la bambina con cui stavo chiacchierando è appena finita in sala operatoria per un intervento al cervello.
"Dottor Rossi, che ci fa lì impalato? Ci sono pazienti fuori che attendono, cominci a occuparsene. I reduci dell'incidente sono tutti sotto controllo." Mi rimprovera il dottor Marcelli.
"Sì, vado subito." Dico, obbedendo.
Fortunatamente, non arrivano altri casi troppo gravi, così mi limito a mettere qualche punto e ad assistere il dottor Marcelli nell'operazione di un'appendice infiammata.
Quando usciamo dalla sala operatoria, vedo la dottoressa Alfredi fuori dalla sua sala, con un'espressione che è poco fraintendibile.
"Dottoressa, come sta Carla?" Chiedo, correndo verso di lei.
"Non c'è stato niente da fare, Dottor Rossi. L'emorragia era troppo diffusa." Dice, con una voce sconfitta. "Sa dove sono i suoi genitori?" "Sono in terapia intensiva. Sono vivi, ma ancora sotto l'effetto dell'anestesia." Rispondo in modo automatico, mentre sento qualcosa andare in frantumi dentro di me.
"Bene, grazie." Dice lei, allontanandosi.
Sbircio nella sala operatoria e intravedo un lenzuolo che copre un corpicino.
Un corpicino che aveva appena iniziato la scuola elementare. Un corpicino che aspettava di vedere di nuovo i suoi genitori. Un corpicino che pensava alla sua vacanza natalizia. Un corpicino che voleva fare il dottore, ma che ora è destinato a dormire per l'eternità.
Cerco di prendere fiato, ma sento le mani tremare e gli occhi bruciarmi. Questo non è giusto. Aveva solo sei anni, maledizione.
"Dottor Rossi, sta bene?" Mi chiede il dottor Marcelli.
Scuoto la testa. "No, non sto bene. Carla aveva sei anni. Lei voleva fare il medico."
Il mio capo si inumidisce la labbra. "Dottor Rossi, vada a casa."
"Io..."
"Lei ora va a casa, si fa una doccia, si riprende e domani torna qui. Vada a casa, dottore." Mi dice, con tono perentorio.
Senza neanche rendermene conto, eseguo gli ordini.
Mi rimetto i miei vestiti ed esco dall'ospedale.
Chissà come, il sole è completamente sparito e la pioggia cade, silenziosa e insistente.
Non riesco a fare a meno di pensare che anche il cielo stia salutando la piccola creatura che si è appena spenta.
Appena salgo in auto, fisso la pioggia fuori dal parabrezza e sento un nodo in gola che diventa minuto dopo minuto sempre più soffocante.
Le mani mi tremano e sento il corpo irrigidirsi.
Non sapendo come gestire quello che credo sia un attacco di panico, faccio la prima cosa che mi viene in mente: prendo il cellulare e compongo un numero di telefono.
"Dimmi che mi stai chiamando per un motivo valido, per una volta." Mi risponde la voce della mia psicologa, piuttosto seccamente.
"Credo di avere un attacco di panico. Non riesco a respirare bene, ho le mani che tremano e... E sento tutto il corpo rigido."
"Sei sicuro che non sia un problema fisico?"
"No, non lo è. Ho avuto una brutta giornata."
"Okay, allora cerca di respirare piano e profondamente. Segui quello che ti dico io. Uno... Due. Uno... Due."
Seguo le sue indicazioni e a poco a poco sento il nodo in gola sciogliersi, mentre le lacrime mi scendono sulle guance.
"Ti senti meglio?"
"Sì." Mormoro.
"Sei sicuro di star bene?"
"Ho appena visto morire una bambina di sei anni." Dico, con la voce rotta. Lei rimane in silenzio. "Vuoi che ne parliamo? Non credo di riuscire ad arrivare in studio con questa pioggia, ma se vuoi puoi passare da me. Non sarà il massimo della professionalità, ma capisco la situazione."
Vorrei dirle che non ho bisogno di una psicologa, che l'unica cosa di cui avrei bisogno sarebbe un amico. Ma dato che, per quanto sia strano, il rapporto con lei è forse la cosa più simile all'amicizia che io conosca, mi ritrovo ad annuire.
"Sì, arrivo."
"Okay, ti aspetto."
Riaggancio e metto in moto l'auto, prima di avviarmi verso i Navigli.
La zona è stranamente deserta, probabilmente per l'acqua che viene giù sempre più copiosamente. Non c'è traccia dei soliti passanti che chiacchierano tra di loro.
Parcheggio l'auto e mi dirigo verso il portone in cui ho visto entrare Gaia qualche giorno fa.
Facendo appello alla mia memoria, tiro fuori il suo cognome dalla mia mente e suono al citofono.
"Chi è?"
"Sono Gabriele."
"Sali. Secondo piano."
Faccio quello che mi dice e quando la porta dell'ascensore si apre, mi ritrovo di fronte una porta mezza aperta e una faccia triste mi fa un sorriso. "Entra. C'è un po' di disordine, ma meglio di niente." Mi dice Gaia, scostandosi dalla porta per farmi passare.
Entro in casa, in un piccolo salotto dall'aria accogliente. I colori variano dal rosa del divano al panna delle pareti e la luce intensa di una lampada di svarosky illumina la stanza da un angolo.
"Puoi sederti sul divano." Mi dice e io eseguo. Lei si siede accanto a me. "Come stai?"
"Di merda." Ammetto, sconfitto.
"Che cosa è successo alla tua paziente?"
"Era reduce di un incidente stradale. La mamma e il papà erano in sala operatoria, lei aveva solo un taglio sulla fronte. Gliel'ho ricucito e intanto ho chiacchierato con lei di..." La mia voce si rompe. "Di che scuola facesse e di cosa volesse fare da grande. Avevo già preventivato una tac alla testa, ma non pensavo fosse urgente. Almeno fino a quando non mi è svenuta tra le braccia. Aveva un'emorragia e l'intervento non... Lei non ce l'ha fatta. Forse, se me ne fossi accorto prima..."
"Stava parlando con te, come potevi accorgertene? Avevi in mente di farle delle analisi, non hai niente di cui rimproverarti."
"Forse no, ma quella bambina mi stava raccontando cosa avrebbe voluto fare da grande, e ora non c'è più. E' morta. Come se non fosse mai esistita. Cosa sono sei anni nella storia? Niente."
Gaia allunga una mano e mi stringe un braccio. "Mi dispiace tanto."
"Io sono un medico, dovrei... Dovrei sopportare la morte. Ma non quando la mia paziente aveva sei anni, non quando non ha ancora potuto vivere, crescere, innamorarsi, realizzare i suoi sogni. Quella bambina non sapeva neanche cosa fosse la vita."
"Io penso che nessuno sia capace di essere del tutto impassibile di fronte alla morte, medico o non medico che sia. E non è una cosa brutta come può sembrare. Vuol dire che sappiamo ancora capaci di commuoverci di fronte a qualcuno che se ne va."
Scuoto la testa. "Un momento prima ci sei e un momento dopo non ci sei più." Mormoro.
Gaia fa un respiro profondo. "Già, e anche questo parte della vita." Restiamo in silenzio per qualche minuto, ma mi accorgo che lei non toglie la mano dal mio braccio. E' come se non sapesse cosa dire, come se in questo momento non stesse esercitando la sua professione, ma stesse solo cercando di rassicurarmi.
"E' stata la prima volta che hai avuto un attacco di panico?" Mi chiede dopo un po'.
"Ne avevo alcuni da piccolo, quando i miei litigavano. Era da un po' che non ne avevo. Ci sono andato vicino qualche mese fa, quando ho perso un paziente di dodici anni."
"Come riesci a sopportarlo?"
Alzo le spalle. "Penso alla gente che vive, alla gente che salvo. Alle persone a cui do un'altra possibilità. Ma poi, certe volte, mi chiedo a che serva, se poi gente innocente se ne va così."
Lei annuisce. "Quando mia madre è morta ho giurato a me stessa che avrei fatto qualunque cosa per salvare le persone. Per questo mi sono iscritta a medicina. Ma il pensiero di dover vedere gente che moriva mentre io e tutti i loro affetti potevamo solo restare a guardare mi uccideva."
Sbatto le palpebre e la guardo.
Ha gli occhi lucidi e si inumidisce le labbra.
"Quanti anni avevi?"
"Cinque. Era malata da qualche mese. Il male era troppo avanzato per fermarlo. Andavo a trovarla in ospedale ogni giorno, l'ho vista morire." Allungo una mano e stringo la sua, ancora sul mio braccio.
Come ha fatto a sopportare una cosa come questa?
Ho quasi dimenticato l'ultima volta che ho visto mia madre, ma come mi sentirei se dovesse andarsene per sempre?
"Mi dispiace."
"Non ho mai saputo cosa volesse dire andare a fare compere con la mamma, fare la spesa o aiutarla a preparare il pranzo. L'unica cosa che so è che quando la gente muore, a prescindere da quanto tempo abbia trascorso su questa terra, lascia sempre una traccia indelebile nel cuore di chi resta. E' la nostra strada per l'immortalità." Dice, asciugandosi gli occhi. "Come sei riuscita ad andare avanti?"
Lei scuote la testa. "Onestamente non so se io ci sia riuscita davvero. I miei incubi dicono di no."
"Cosa sogni?"
Non so neanch'io perché io le stia facendo tutte queste domande, so solo che il fatto che lei si stia aprendo con me mi fa sentire come se non fossi solo di fronte al dolore che ho dentro.
E, per qualche motivo, vorrei che anche lei potesse sentire di non essere sola con il suo dolore.
"La malattia. I giorni prima che morisse. Non era rimasto più niente della mia mamma. La donna in quel letto non aveva niente a che fare con lei. Mi assomigliava molto, prima di ammalarsi. Aveva i miei stessi occhi."
Sorrido. "Doveva essere molto bella." Mi sento dire, prima di rendermene conto.
Per fortuna, Gaia non presta attenzione al mio complimento quasi involontario, ma vedo un sorriso spuntare sulle sue labbra. "Lo era. Molto. Ed era buona. Mio padre l'amava più di qualunque altra cosa."
Sento una punta di amarezza nella sua voce.
"E lui? L'ha superata?"
"A modo suo, forse sì. Trascorre le sue giornate nei bar a bere qualunque cosa contenga alcool. E' per questo che non bevo mai, fatta eccezione per il giorno più doloroso dell'anno. Ho paura che prima o poi possa vedere anch'io la mia unica via di fuga in un bicchiere di Vodka."
Scuoto la testa. "Tu non sei così."
"E tu che ne sai? Mio padre era un uomo meraviglioso, prima che lei se ne andasse."
"Sei troppo in gamba per finire incollata allo sgabello di un pub."
"Non pensavi che fossi ripugnante, dopo il nostro primo incontro?" Mi dice, con un sorriso di sfida e capisco che il momento delle confessioni è finito. "Non ho mai detto che tu fossi ripugnante."
"Solo un'ubriacona irresponsabile e incapace di seguirti in terapia." Ribatte. Alzo le spalle. "Mi sono sbagliato. Sei in gamba e impeccabile nel tuo lavoro." Ammetto.
"Se fossi impeccabile nel mio lavoro tu non saresti qui."
"Perché no? E' come se fosse una seduta, no? Abbiamo solo dovuto cambiare la sede per cause di forza maggiore." Dico, indicando il mal tempo fuori dalla finestra.
"Se fosse stata una seduta non ti avrei raccontato di mia madre."
"Ma io sono felice che tu l'abbia fatto." Le dico. "E, seduta o no, mi hai aiutato a stare meglio. E' più facile sopportare il dolore, quando qualcuno lo condivide con te."
Restiamo in silenzio per qualche momento e le mie mani prudono dalla voglia di accarezzarle una guancia e passare la mano sul collo lasciato scoperto dalla coda disordinata che le raccoglie i capelli.
La sua pelle sarebbe davvero morbida come sembra sotto le mie dita? Deglutisco e mi sembra che lei faccia la stessa cosa. Ma dopo qualche istante, sembra riscuotersi.
"La prossima volta dovresti provare a confidarti con Liz, sono certa che ti aiuterebbe e aiuterebbe anche il vostro rapporto." Dice, balzando su dal divano.
Liz? Perché non ci ho neanche pensato?
Deglutisco ancora. "Sì, naturalmente." Annuisco.
"Sono contenta di averti aiutato, in qualche modo."
Non sono un idiota, sono capace di riconoscere un congedo. Quello che non capisco è il modo in cui l'aria tra noi si sia raffreddata così tanto nel giro di qualche minuto.
O forse non è mai stata più calda di così e il tuo cervello sta andando in pappa.
Metto a tacere i miei pensieri. "Sì, grazie. Sei stata molto gentile a permettermi di venire."
"Capivo come dovessi sentirti. Ogni tanto si può fare un'eccezione per una giusta causa."
Mi dirigo verso la porta e lei mi segue, aprendola.
"Ti devo qualcosa?"
So che qualche minuto fa ha detto che non è stata una seduta, ma sembra passato un secolo dalle sue parole.
Lei sembra sorpresa dalla mia domanda. "No, non importa. Mi sono offerta io di darti una mano."
Resto per un attimo fermo sulla soglia di casa, in attesa che aggiunga qualcosa.
Cosa mi aspetto che aggiunga, poi, non lo so neanch'io.
Quando le mie aspettative restano deluse, mi rassegno ad andar via. "Buonanotte, Gaia. E grazie." Le dico, guardandola.
La vedo vacillare quando dico il suo nome, poi accenna un sorriso. "Buonanotte Gabriele." Risponde, prima di chiudere la porta.
Resto sul pianerottolo per qualche istante, a chiedermi che cosa sia appena successo.
I miei sentimenti sono un nodo intricato: il dolore per la piccola che oggi ha lasciato questo mondo è mescolato ad una sensazione di tristezza per tutto quello che Gaia ha dovuto affrontare e ad un sentimento che ondeggia tra la tenerezza e un qualcosa che non saprei definire.
Mentre l'ascensore mi porta verso la mia auto, ripenso al racconto di Gaia, al dolore che ha offuscato i suoi occhi azzurri mentre parlava di come sua mamma è andata via.
Lei non ha potuto vivere l'amore tra madre e figlia perché il destino non gliel'ha concesso, ma io? A me è stata data una scelta, nonostante tutto.
I miei genitori saranno anche dei bastardi egoisti, ma non mi sono stati strappati via dalla morte.
Sono vivi e io non so nemmeno dove siano in questo momento, come sia la loro vita, se stiano bene.
Dopo essermi infilato in auto ed essere rimasto a fissare il cellulare per qualche secondo, faccio una cosa che mai avrei pensato di fare: con le dita che tremano, compongo il numero di mia madre.
Non sono in grado di decifrare quello che provo, mentre attendo che qualcuno risponda dall'altra parte. Una parte di me vorrebbe che non rispondesse nessuno, ma un'altra si sente... emozionata? "Gabriele?"Chiede una voce incredula al quarto squillo.
Vorrei rispondere, ma qualcosa si blocca dentro di me.
Rivedo il momento in cui me ne sono andato di casa, rivedo mia madre supplicarmi di non sparire, mi vedo chiuderle la porta in faccia.
Mi rivedo mandarla via quando è venuta a cercarmi, mi rivedo cancellare ogni sua telefonata.
"Sono io." Mormoro, non appena riesco a ripristinare il collegamento bocca cervello.
Stringo le mani sul volante e cerco di controllare il battito impazzito del mio cuore.
"Dio mio, stai bene? E' successo qualcosa?" Nonostante la sua voce sembri tanto diversa da come la ricordassi, riconosco la sfumatura di panico che la colora.
"Sto bene. Avevo bisogno di sentirti."
"Vuoi che venga da te? Posso prendere un volo per Milano subito, se vuoi. O puoi tornare a casa, sai che è sempre aperta. Cosa vuoi che faccia?" Chiudo gli occhi, mentre cerco di rimandare giù un nodo che sento formarsi in gola.
Il desiderio di rivederla si mescola alla paura e alla rabbia e mi dico che ho ancora bisogno di tempo.
"Forse un giorno, ma non adesso. Volevo solo accertarmi che tu stessi bene e risentire la tua voce. A presto, mamma." Dico, e chiudo la comunicazione prima che lei possa rispondere, restando solo con i miei pensieri, mentre l'ultima parola pronunciata lascia sulle mie labbra uno strano sapore. Un sapore che sa di un amore che non pensavo di provare ancora.

Lasciate un parere su cosa ne pensate se ne avete voglia... e perdonate l'assenza di ieri! Un saluto!

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