Capitolo 43

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Tutti noi abbiamo una persona che perdoneremo sempre, qualsiasi cosa faccia.

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Lo avevo sentito.

Avevo sentito come Cameron avesse realmente bisogno di me.

Lo avevo capito da come mi stringeva a sé e da come mi sussurrava parole dolci, da come mi rassicurava.
E, all'udire di quelle parole, sembrava che le nubi di tristezza nella mia vita scomparissero totalmente.

Questa notte avevo fatto un incubo, un terribile incubo, oserei aggiungere.

Mi ero sentita morire, come se mi stessero strappando il cuore di dosso.
Poi però, fortunatamente, avevo sentito la sua voce e le sue mani sfiorarmi delicatamente, tutte le paure erano svanite nel nulla.

****
Come tutte le sante mattine quella sveglia irritabile risuonò tra le pareti della mia camera. Era talmente insopportabile che ero più che sicura che anche Effy e Freddie l'avessero sentita perfino dalla loro camera.

Mi rivoltai nel letto in cerca del corpo di Cameron di cui ovviamente non c'era alcuna traccia.
Mi sedetti sul bordo del letto mettendo le mani sulla mia faccia e mi strofinai gli occhi con un sospiro seguito da uno sbadiglio.
Dopo essermi alzata mi sgranchii le ossa del corpo sentendomi profondamente appagata e mi infilai in bagno, privandomi dei vestiti per entrare nella doccia.
Lavai per bene ogni parte del mio corpo ed ebbi la sensazione che insieme all'acqua e alla schiuma non stava però andando via il ricordo di ieri sera quando io e Cam eravamo stesi sul letto.

Quando lui mi aveva stretta a sé e mi aveva sussurrato parole dolci e rassicuranti.

La cosa più brutta di quest'incubi non era che fossero semplici scene immaginarie, bensì i ricordi precisi del mio passato, di tutto quello che era successo quel maledetto giorno.

Flashback.

Camminai lungo il vialetto di casa mia con la borsa sulla spalla e una mano stretta ad essa.
Infilai la chiave nella serratura pronta per aprire la porta ed essere accolta sicuramente da mia madre con uno dei suoi prelibati piatti che cucinava ogni giorno quando vidi un auto rossa piuttosto costosa correre ad una velocità inaudita scansando le diverse macchine che camminavano con monotonia tra le vie abitate di Manhattan.
Alzai un sopracciglio per l'ignoranza di certa gente, talmente tanto stupide da non capire che facendo così ci andava di mezzo non solo la loro vita, ma anche quella di persone innocenti.
Aprii la porta vedendo mia madre venire verso di me con un sorriso a trentadue denti come ogni giorno, mi prese il viso tra le mani e mi stampò un bacio sulla guancia.

Le sorrisi appendendo la borsa all'attaccapanni a muro e mi tolsi il cappotto poggiandoci anch'esso.
Mia madre dopo qualche domanda indagatoria mi disse di andare con lei in cucina poiché il cibo era pronto.
Mi sedetti a tavola salutando mio padre che teneva in una mano un giornale e sull'altra un bicchiere di vino rosso.

«Ciao papà» lo salutai schiarendomi la gola e lui alzò immediatamente gli occhi in mia direzione sfoggiando un sorriso schietto.
«Tesoro» mi fece un cenno.

Mia madre portò a tavola ad ognuno di noi una porzione fumante di involtini di pollo ripieni di prosciutto e formaggio filante.
Mi venne l'acquolina in bocca a vederlo soltanto e così dopo esserci augurati un buon appetito cominciammo tutti e tre a mangiare.
Tagliai un pezzo di carne con il coltello portandomelo poi alla bocca. «Ah, mamma. Ma Will?» le chiesi continuando a mangiare.
«Uhm...non ne ho idea. L'ho chiamato un paio di volte ma non ne vuole sapere di rispondere come ultimamente capita.» mi rispose bevendo un sorso d'acqua.
«Capisco.»

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