Capitolo 18

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Un forte odore di bruciato m'investì non appena aprii la porta della sala da pranzo. I miei occhi scorrevano piano su ogni cosa annerita dal fumo. Sembrava che il tempo si fosse fermato in quella stanza: tutto era rimasto cristallizzato dal giorno dell'incendio. I mobili della sala, così come il tavolo, erano parzialmente bruciati. Ogni oggetto sui ripiani e sulle mensole erano sciolti o caduti sul pavimento. Il tavolo era ancora apparecchiato. La tovaglia era bruciata. Ne rimanevano solo piccoli brandelli anneriti. I piatti di ceramica erano sistemati sul tavolo in ordine. Accanto, qualche posata ingrigita. Il divano sul fondo della stanza era completamente bruciato. Solo una carcassa rimaneva a ricordare della sua presenza prima di quell'incendio. Lo schermo piatto della tv si era sciolto completamente. Varcai la soglia, facendo un passo in avanti. Ero incerto. Mi sembrava di camminare su un vetro talmente trasparente, che temevo potesse rompersi da un momento all'altro. Gabriele mi raggiunse poco dopo e fermò il mio incedere nella stanza.

«Daniele che stai facendo?» vidi i suoi occhi guardare ogni cosa in quella stanza. Sollevò una mano e si coprì la bocca. Indietreggiò di un passo e sgranò gli occhi. «Daniele! Torna qui!» mi intimò, ma io non l'ascoltai. Andai dritto verso la mia meta. Arrivai dinanzi allo schermo della tv e lo scaraventai sul pavimento. La presa era staccata. Forse ci avevano pensato i vigili del fuoco, pensai. Afferrai il cellulare e con lo schermo attivato, feci luce sulla presa della corrente elettrica fissata al muro. La toccai e tolsi via dalla mascherina il nero con il pollice. Con mio grande stupore, constatai che non era bruciata e non presentava alterazioni di alcun tipo.

«Daniele. Mi spieghi che stai facendo?!» Gabriele si decise finalmente ad entrare nella stanza. Mi si avvicinò e mi afferrò per un braccio, strattonandomelo. «Ti stai comportando stranamente...»

«Guarda!» gli dissi, divincolandomi dalla sua presa. Illuminai con il cellulare la presa della corrente ed era intatta. «Non è stato un incidente! Qualcuno ha appiccato l'incendio!»

Gabriele guardò la presa per soli pochi secondi, non dandole nemmeno tanta importanza. Abbassò lo sguardo e sospirò profondamente.

«Usciamo da qui...» disse poco dopo, cercando di afferrarmi ancora il braccio.

«Perchè?» mi spostai e non riuscì ad afferrarmi il braccio. «Perchè vuoi uscire da qui?» lo incalzai, ma non mi rispose. Lo vidi deglutire nervosamente e riprendere a guardarsi attorno.

«Usciamo, dai...» disse, ma lo interruppi subito.

«No!» urlai, tanto che il secco no riecheggiò per tutta la villa «Voglio sapere che cosa è successo! Voglio sapere la verità!» gli dissi e lui non mi disse più nulla. Sul volto gli si dipinse uno sguardo triste, che sembrò sul punto di piangere.

«Io non voglio rivivere tutto questo... vorrei dimenticare, ma non posso. Speravo che almeno tu, Daniele, avessi questa fortuna...» mi disse in un sussurro.

«Sei stato tu Gabriele?» sentii la mia stessa voce tremare nel silenzio della stanza. Gabriele continuò a guardarmi, ma non disse nulla. Si morse un labbro. «Dimmelo, ti prego».

Sospirò profondamente. I suoi occhi erano lucidi, forse stava ricordando qualcosa. Qualcosa che io volevo disperatamente sapere, ma che lui preferiva dimenticare.

«Avresti solo dovuto continuare a vivere così. Con me. Senza che ricordassi nulla. Perchè non hai potuto, Daniele?» lo vidi crollare ed inginocchiarsi per terra. Un gran polverone nero si alzò attorno a lui, rimanendo nell'aria e poi scomparendo pian piano. Si mise le mani al volto e sentii i suoi singhiozzi diventare sempre più frequenti. M'inginocchiai davanti a lui e posai la mia mano sulla sua spalla.

«Perchè? Perchè non hai dimenticato?» stava tirando fuori tutte le lacrime fino ad ora nascoste e trattenute.

«Sei stato tu?» gli chiesi ancora, ma proprio in quel momento la mia mente ricordò qualcosa. Qualcosa che avevo preferito dimenticare. Qualcosa che la mia mente aveva reso ben diverso dalla realtà.

Ci trovavamo in questa stanza. Gabriele era accanto a me. Gli tenevo la mano. Che dolore alla testa provai in quel momento. Cercai però di concentrarmi. Non volevo perdere quel ricordo, ancora una volta.

«Gabriele ed io ci amiamo!» i miei genitori erano sorpresi. Mio padre sgranò gli occhi ma non disse nulla. Mia madre si coprì la bocca. «Per favore, vorrei che accettaste i nostri sentimenti!»

Mia sorella era seduta sul divano. Stringeva i pugni. Era nervosa. Guardava in basso. Non disse nulla. Il suo viso era contratto. Odio. Era questo che provava.

«Ma Daniele... che dici?» mia madre ruppe quell'assurdo silenzio. Aveva ritardato la cena. La tavola era apparecchiata. La tovaglia bianca era disposta perfettamente sul tavolo in legno di ciliegio al centro della sala. I piatti in porcellana, bordati da un rigo sottile e dorato, erano disposti geometricamente sul tavolo. Ognuno aveva le sue posate. Ero nervoso. Guardavo Gabriele ed era teso quanto me. Lui guardava Laura, che restava in silenzio nell'angolo della sala.

«Sto dicendo la verità, mamma. Io amo Gabriele e vorremmo stare insieme».

Gabriele mi strinse ancor più la mano ed io ricambiai con un timido sorriso. Laura si alzò improvvisamente dal divano. Si avvicinò al tavolo e sbattè i pugni violentemente sulla superficie dura del tavolo. Un piatto cadde per terra e si ruppe.

«Non lo accetto! Gabriele è il mio fidanzato! Non me lo porterai via!» dischiusi le labbra e sgranai gli occhi. Non l'avevo mai vista così arrabbiata. Salì le scale e corse in camera sua. Le andai dietro e Gabriele mi seguì. Aprimmo la porta e Laura era in piedi, davanti la sua scrivania, poggiando su di essa entrambi i palmi.

«Te l'avevo già detto, Laura. Perchè reagisci in questo modo?» fu Gabriele a parlarle, ma lei sembrava non ascoltarlo. Si girò di scatto. Afferrò il tagliacarte d'argento, regalo di nostro nonno e mi corse incontro.

«Ti uccido! Sei tu la causa di tutto!» esclamò, mentre correva verso di me. La visuale mi fu coperta dal corpo di Gabriele, che si frappose tra me e Laura. Il tagliacarte gli si conficcò nella spalla, trapassandola da parte a parte. Il sangue mi schizzò sul viso, mentre Gabriele si accasciava e lo accoglievo fra le mie braccia.

«Ga-Gabriele...» balbettai il suo nome, mentre le lacrime scendevano, mescolandosi al suo sangue sul mio viso. «Gabriele! No!» esclamai disperato, mentre tamponavo la ferita con la mia mano.

«Stai... bene?» mi chiese lui, guardandomi e respirando a fatica. Annuii senza dire null'altro. Lui sorrise appena e poi svenne fra le mie braccia.

«L'ho ucciso?! Che cosa ho fatto?!» Laura fece cadere il tagliacarte sul pavimento e, con entrambe le mani, si prese il volto fra le mani. «Sei stato tu! Daniele è colpa tua! Se tu non fossi mai esistito lui ora sarebbe vivo. Staremmo insieme adesso. Invece dovevi immischiarti nella mia vita!» Raccolse il tagliacarte e mi venne incontro ancora una volta. Riuscii a schivare il colpo, molto più lento di prima e a disarmarla. Corsi per le scale e sbattei la spalla contro il muro. Il sangue mi colava lungo la guancia. Corsi a prendere il mio cellulare. Volevo chiamare un'ambulanza per Gabriele. I miei genitori erano spaventati. Mentre componevo il numero, Laura aveva corso di sotto ed in mano aveva una statuina di bronzo, a cui mio padre teneva particolarmente, perchè era un dono di un famoso artista post moderno. Si avvicinò a me ed il suo viso era sempre più furioso.

«Non devi più esistere Daniele!» mi disse prima di colpirmi con la statuina sul capo. In quel momento tornai alla realtà. Gabriele ancora inginocchiato, mi guardava perplesso, mentre mi accarezzavo il capo dolorante.

Ricordai il viso di Laura, sopra di me. Le sue mani intorno al mio collo, che si stringevano sempre di più.

«Non sei ancora morto?!» mi disse guardandomi con disprezzo. «Non importa, morirai assieme a noi. Perchè non posso stare senza Gabriele. Lui è morto e adesso noi tutti dovremo morire...» sembrava una pazza, mentre si allontanava da me. Afferrò la tanica di benzina, che eravamo soliti tenere in garage per ogni evenienza e iniziò a spargerne il contenuto per tutta la sala da pranzo. Aprii la bocca, ma la gola era serrata. Non riuscivo a emettere un solo suono. Spostai il viso e vidi i miei genitori distesi per terra, senza vita. Sgranai gli occhi e riaprii la bocca tentando di gridare, ma non riuscivo più a parlare. Laura accese un fiammifero e lo lasciò cadere sul pavimento. In pochi secondi, la stanza fu invasa dalle fiamme.

DimenticaWhere stories live. Discover now