Capitolo 7

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Appoggiai la schiena contro lo stipite della porta socchiusa. Sorseggiavo il caffè, nel mentre osservavo la porta sigillata della sala da pranzo. Era completamente annerita, ma per fortuna non completamente bruciata. Più l'osservavo più mi sembrava impossibile che la mia famiglia fosse morta a causa di un incendio sviluppatosi in una sola stanza. In ospedale mi dissero che erano soffocati a causa del fumo intenso, creatosi per le fiamme. Cominciai a riflettere sull'accaduto. Com'era possibile che non fossero fuggiti?

Da quando sono tornato in questa villa, non faccio altro che pormi questa domanda, a cui però non so dare una risposta. Anche un'altra domanda mi tormentava: perchè ero sopravvissuto solo io?

In quel momento una fitta lancinante mi trafisse il capo. La cicatrice mi pulsava talmente tanto, che la mia mano non resse più la tazzina. La lasciai cadere e, con un rumore sordo, si ruppe in tanti pezzi. Perchè? Perchè mi accade questo ogni volta che cerco di ricordare?

Poggiai le ginocchia nude sul pavimento in legno. Indossavo solo dei boxer neri ed una maglia bianca, con cui avevo dormito la notte appena trascorsa. Mi sembrò d'impazzire dal dolore. Mi accasciai sempre più. Cercai di respirare, così da calmarmi, ma mi risultò davvero difficile. Cercai di rimettermi in piedi, ma le gambe non riuscirono a reggermi, perciò strisciai verso le scale, per poter raggiungere il secondo piano dove, nella mia stanza, c'era il mio cellulare. Puntellai entrambe le mani sul pavimento e con una spinta decisa, riprovai a mettermi in piedi. A fatica, ci riuscii. Percorsi lentamente gli scalini e sbattei più volte la spalla sinistra contro il muro. Respiravo a fatica e avevo un forte senso di nausea. Raggiunsi finalmente la mia camera ed il letto. Afferrai il cellulare e mi accasciai nuovamente sul pavimento. Composi il primo numero sulla lista. Era quello di Claudia.

«Pronto, Daniele?» mi rispose poco dopo un paio di squilli.

«Claudia... aiutami... non sto bene» tossii e vomitai.

«Daniele! Chiamo l'ambulanza. Sta tranquillo!» mi urlò lei disperata. Sentii la chiamata chiudersi all'istante.

I miei occhi non riuscirono più a mettere a fuoco nulla. Vidi sfocato e poi buio.

* * *

Riaprii gli occhi lentamente. Dapprima la luce a neon della stanza in cui ero, mi diede fastidio agli occhi, facendomeli socchiudere e riaprire diverse volte. Vidi un medico accanto al mio letto e Claudia vicino a lui. Le sorrisi e lei commossa, versò qualche lacrima. Mi prese la mano fra le sue ed io la strinsi forte. Il dottore ci lasciò e un'infermiera sistemò sull'asta per la flebo, una sacca con del liquido trasparente all'interno.

Claudia mi aiutò ad alzarmi e mettermi seduto, mentre Simone, che fino a quel momento era rimasto in disparte in fondo alla stanza, mi mise un cuscino dietro la schiena, affinchè mi appoggiassi. Deglutii con fatica. Sentii un sapore amaro sulla lingua, che quasi mi disgustò.

«Come ti senti?» mi chiese Claudia, stringendomi ancora la mano.

«Stordito» risposi e ridacchiai nervoso «Grazie Claudia, mi hai salvato...».

Le sorrisi, ma lei si accasciò sulle mie gambe, coperte dal lenzuolo bianco, e cominciò a piangere. Le accarezzai delicatamente il capo, mentre Simone le accarezzò la schiena. Claudia sollevò il viso e con le dita cacciò via le lacrime che avevano rigato il suo volto.

«Ok, ok... sto bene...» disse rivolgendosi ad entrambi, che ridacchiammo appena. Claudia afferrò la borsa e si alzò dalla sedia accanto al mio letto. «Vado a prendere un caffè, ne ho bisogno. Simone vuoi qualcosa?»

«No, grazie.» le sorrise e rivolse subito il suo sguardo a me, che arrossii come un ragazzino. Distolsi lo sguardo da Simone, per posarlo poi su Claudia che stava uscendo dalla stanza.

«Ok» disse alzando le sopracciglia «torno subito». Sicuramente aveva intuito qualcosa. Claudia sapeva essere molto perspicace in questo tipo di cose. Non appena uscì, Simone si sedette sulla sedia accanto al mio letto.

«Che cosa è successo?» mi chiese apprensivo. I suoi occhi verdi erano fissi nei miei. Aveva l'aria stanca. Due occhiaie grigiastre gli solcavano il viso, tormentato dalla preoccupazione.

«Non lo so nemmeno io. Ero sceso di sotto a far colazione. Stavo bevendo il caffè ed ero di fronte alla sala da pranzo e... dopo ho cominciato a sentirmi male...» mi portai la mano sul capo e l'accarezzai piano. Sentii la cicatrice pulsare. Il dolore era meno forte di quello provato quella mattina. Simone mi accarezzò una guancia e, avvicinando il suo viso al mio, posò la fronte contro la mia. Restò con gli occhi chiusi ed in silenzio per qualche secondo. Lo imitai e presto il dolore sembrò diminuire sempre più. Sembrò che quel suo gesto riuscisse a calmarmi. Che avesse un dono Simone? Non lo sapevo di certo. Con lui mi sentivo sempre così. Riaprimmo gli occhi quasi nello stesso momento. Ci guardammo intensamente, mentre la mano di Simone mi accarezzava ancora la guancia.

«Come va?» mi chiese lui in un sussurro.

«Meglio...» gli risposi, poggiando la mia mano sulla sua. «Grazie...»

«Ero così preoccupato» ammise. Staccò la sua mano dalla mia guancia e a mezz'aria intrecciò le dita con le mie. Poggiammo le nostre mani intrecciate sul letto. Le labbra di Simone sfiorarono le mie, in un dolce e breve bacio. Ci guardammo per qualche istante, silenziosi. Distolsi lo sguardo da lui e guardai le nostre mani unite. Il mio cuore batteva forte, ma c'era qualcosa che mi rendeva irrequieto.

«Simone, non è giusto...» cominciai a dirgli, ma mi fermai non sapendo che parole utilizzare.

«Cosa?» mi chiese perplesso, mentre continuava a stringermi la mano.

«Devo far chiarezza nei miei sentimenti... non mi sembra giusto nei tuoi confronti. Hai detto di amarmi e ne sono felice, però devo capire cosa provo davvero...»

Lui abbassò lo sguardo. «Capisco... aspetterò» mi guardò nuovamente e mi sorrise dolcemente. Forse lo avevo rattristito, ma non me lo faceva pesare. Apprezzavo questo lato positivo di Simone. Riusciva a mettermi di buon umore, a calmarmi, a farmi stare bene. Nel mio cuore però, Gabriele si faceva spazio prepotentemente. Prima o poi avrei dovuto affrontarlo. Lui mi aveva salvato. Come aveva potuto non dirmelo?

* * *

La mattina dopo il dottore entrò nella mia stanza, con i risultati della TAC effettuata il giorno prima. Un uomo sulla cinquantina, dai capelli brizzolati e gli occhiali dai vetri spessi, si sedette sulla sedia accanto al mio letto.

«La TAC non ha mostrato nulla di grave. Credo che ciò che ha avuto sia stato causato da un forte stress. Le avevano raccomandato di restare tranquillo e di subire meno stress possibile quando l'hanno dimessa la prima volta?»

«Si» mi mordicchiai il labbro nervoso. Aveva ragione. Avrei dovuto restare calmo. «Me l'hanno detto, ma pensavo di essere ormai guarito.»

«Ci sono degli stati della psiche umana difficili da guarire. Lei soffre di perdita della memoria: ha recuperato qualche ricordo dall'incidente?» disse in tono serio, sfogliando la cartella che stringeva nelle mani.

«Si, ho ricordato qualcosa» ammisi annuendo al dottore.

«Bene, solo le raccomando di fare più attenzione. Lo stress è molto difficile da gestire, soprattutto per lei che si trova in queste condizioni.» le sue parole sapevano quasi di rimprovero.

«Ha ragione. Farò attenzione» gli promisi e lo guardai alzarsi dalla sedia e andare verso la porta.

«Ha pensato di contattare uno psicologo?» mi disse fermandosi poco prima di arrivare alla porta e voltandosi di poco verso di me.

«Come? No...» mi ritrassi involontariamente da quella domanda. Uno psicologo? Ero malato fino a quel punto?

«Potrebbe farle bene. Credo che ci sia qualcosa che la blocchi, qualcosa nel suo subconscio che forse reprime. Gli studi sulla psicologia mi affascinano, ma non sono esperto» disse dopo una breve risata «Le darò il numero di una mia collega. E' molto brava. Gliela consiglio.»

Annuii semplicemente. Non avevo mai pensato di ricorrere ad uno psicologo, ma se sarebbe riuscito a guarirmi, valeva la pena tentare.

DimenticaWhere stories live. Discover now