Capitolo 2

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Passò una settimana dal mio arrivo alla villa. Avevo soggiornato in un albergo nel paese vicino ed avevo cominciato a sistemare la casa di famiglia. A quanto pareva ero un geometra. Claudia mi disse che avevo una piccola ditta, messa su con i miei risparmi e con l'aiuto dei miei genitori. Chiamai la squadra di operai con cui avevo lavorato abitualmente negli scorsi anni e furono davvero felici di vedermi.

«Ci sei mancato, Daniele...» mi disse Simone, il capo cantiere che fino a quel momento aveva portato avanti gli affari a mio nome. Non ricordavo nulla di lui e degli altri ragazzi che formavano la squadra. Mi aveva detto che eravamo ottimi amici e che potevo contare su di lui per qualsiasi cosa. Aveva ventisei anni e nonostante la sua giovane età era riuscito a mandare avanti la ditta in modo egregio. Io, invece ne avevo trenta e mi sentivo come un ragazzino che doveva imparare tutto un'altra volta.

«Grazie Simone. Grazie per essere venuto. Mi sentirei perso senza di voi...» gli sorrisi sincero e lui contraccambiò il mio sorriso abbracciandomi forte. Rimasi spiazzato dal suo gesto. Nonostante fosse più piccolo di me, era molto più alto e più muscoloso. In effetti, il mio fisico non era molto allenato. Dopo il coma, avevo cominciato a fare della fisioterapia. Avevo gli arti indolenziti ed il dolore che provavo ad ogni movimento era indescrivibile. Nei primi tempi avevo persino rinunciato a camminare, ma Claudia mi spinse a continuare a provare. Anche Simone veniva spesso a trovarmi e solo grazie a loro due che mi ripresi.

Simone si staccò da me, ponendo fine all'abbraccio. Mi sorrise e restò in silenzio per qualche attimo ad osservarmi.

«Allora? Dov'è questo progetto di cui mi parlavi al telefono?» mi chiese, scompigliandomi i capelli proprio come fossi un ragazzino.

Sistemandomi i capelli, lo feci accomodare in casa e su di un mobiletto, poggiai il foglio su cui avevo fatto uno schizzo di come avevo intenzione di risistemare l'interno e l'esterno della villa. Per lo più il lavoro più grosso sarebbe stato nella sala da pranzo. Lì, in quella stanza era scoppiato l'incendio. Non avevo avuto però il coraggio di entrarvi. Non ero ancora pronto. Quindi, dissi a Simone che quella sarebbe stata l'ultima stanza da rifare.

«Per ora ci occuperemo dell'esterno. La facciata è quasi coperta dall'edera. Bisogna dargli una ripulita. Toglierò le persiane rotte e in qualche modo vorrei aggiustarle. Non voglio  cambiare troppo di questa casa, ma solo renderla abitabile. E' solo trascurata».

«Si, certo. Capisco benissimo. Mi sembra che ogni stanza abbia bisogno di una ritinteggiata» disse Simone, guardandosi attorno ed incrociando le braccia al petto. Vedevo i suoi occhi verdi spostarsi su ogni angolo della stanza. Quindi sciolse le braccia e posò una mano sui capelli neri, grattandosi il capo. «Dovremo controllare anche le scale che portano al piano superiore e credo bisognerà rivedere anche il tetto. Non vorrei ci fosse qualche infiltrazione.»

«Esatto...» gli dissi, imitando il suo guardarsi attorno. «Sarà un lavoraccio, lo ammetto. Ma ne ho davvero bisogno.»

«Certo. Ti aiuteremo, non preoccuparti. Ho diviso la squadra in due. La prima si sta occupando di un lavoro in città e l'altra l'ho impegnata qui da noi.»

«Bene» dissi e dopo sospirai, come se mi fossi tolto un peso «Sarei davvero perso senza di te» gli dissi, posando la mia mano sul suo braccio.

Lo vidi ridacchiare, come se fosse nervoso. Notai anche un leggero rossore sulle sue guance, ma forse me lo ero immaginato.

*   *   *

Tutta la squadra si mise al lavoro. C'era chi perlustrava gli interni e chi si dedicava agli esterni come me. Armato di cesoie ero intento a staccare qualche ramo di edera che aveva invaso la facciata della casa. Cercai di staccare un grosso ramo. Quindi, posai la cesoia ai miei piedi e cominciai a tirare con entrambe le mani il grosso ramo. Sentii dapprima uno scricchiolio e poi finalmente venne via, assieme a gran parte dell'edera che stavo tagliando poco prima. Il mio piede destro pestò parte della cesoia. Persi l'equilibrio e caddi all'indietro. Un braccio ben saldo mi afferrò dalla schiena e, attirandomi verso di sé, riuscì con il braccio libero ad evitare che il grosso ramo mi cadesse addosso.

Mi ritrovai in una frazione di secondo seduto per terra, con il viso sprofondato nel petto del mio salvatore, il quale prontamente si staccò da me e mi sorrise.

«Gabriele...» dissi soltanto, riconoscendo il ragazzo che era venuto qui la settimana scorsa. Quel ragazzo che sapeva di me, ma che io purtroppo non ricordavo.

«Stai bene?» mi chiese, tenendomi ancora fra le sue braccia. Arrossii come un ragazzino alla sua prima cotta ed abbassai subito lo sguardo.

«S-si, grazie» balbettai e maledissi il mio essere timido.

Simone accorse subito e mi aiutò a rialzarmi. Anche la squadra si era fermata, curiosa di sapere cosa fosse successo.

Rivolsi un grazie ad entrambi e, mentre con le mani mi tolsi la polvere dai vestiti, vidi Simone squadrare Gabriele. Non lo avevo mai visto con quello sguardo così serio. Inarcai un sopracciglio, non riuscendo a capire il motivo di quella tensione, che chiunque poteva avvertire.

«Simone, lui è Gabriele, il mio vicino di casa.» dissi rivolgendomi al mio amico. Feci la stessa cosa presentando Simone a Gabriele e notai che anche quest'ultimo aveva uno strano sguardo nel guardare Simone. Mentre si stringevano la mano, potei scorgere sul braccio di Gabriele una grossa ferita. Lo presi per mano e lo condussi sul retro della casa, dove avevamo allestito l'area ristoro. Estrassi da un bauletto un kit di pronto soccorso. Aprii la valigetta e, posandola sul tavolo, ne estrassi del cotone ed un disinfettante.

«Forse brucerà un po'...» dissi a Gabriele, nel mentre tamponavo delicatamente la ferita. «Mi dispiace, per colpa mia ti sei ferito».

«Non preoccuparti. E' solo un graffio» mi disse sorridendomi ed io sentii uno strano formicolio alla bocca dello stomaco.

«Gr-grazie... per avermi salvato...» continuai a balbettare e ridacchiai nervosamente.

Gabriele rimase in silenzio. Nonostante avessi lo sguardo basso, sentii i suoi occhi su di me. Arrossii ancor più, potevo sentire le mie guance infiammarsi. Posai il cotone sul tavolo ed estrassi una benda dal kit, con cui fasciai accuratamente il braccio di Gabriele. Non so per quale motivo, ma continuai ad accarezzare il suo braccio, anche se avevo ormai finito di medicargli la ferita. Gabriele si avvicinò a me, talmente tanto che potevo sentire il suo respiro caldo sui miei capelli. Posò una mano sulla mia guancia, accarezzandola delicatamente. Sussultai leggermente al suo tocco caldo. Le sue dita scivolarono sul mio mento, sollevandolo forzatamente, incrociai il suo sguardo. I suoi occhi dorati, così magnetici e particolari mi incantarono. Avvicinò le sue labbra alle mie in un bacio, così dolce e delicato che quasi non mi sembrò vero. Le mie braccia rimasero inermi lungo i fianchi, mentre gli occhi dapprima sgranati, si chiusero pian piano. Sentii la sua lingua sulle labbra, invitandomi a dischiuderle. Obbedii senza protestare. In pochi secondi quel bacio casto e puro, si trasformò in qualcosa di passionale, che mi fece tremare tutto il corpo. Le mie mani cercarono la sua schiena e si aggrapparono disperatamente ad essa. Gabriele posò il suo braccio ferito attorno alla mia vita, sorreggendomi in qualche modo. Sentii il dolce sapore della sua bocca. Inspirai il suo profumo, aspro e dolce allo stesso momento. Con un ultimo schiocco delle nostre labbra, pose fine a quel bacio. Riaprii gli occhi lentamente e scoprii che mi stava fissando.

«Scusa...» mi disse continuando a guardarmi «Era da una settimana che volevo baciarti».

Rimasi sorpreso e senza parole. Restai a fissarlo inebetito, con le guance che sembravano infiammarsi ogni secondo di più.

«Devo... devo andare...» mi disse e per la prima volta lo vedevo incespicare con le parole.

Annuii senza dirgli nulla. Abbassai per qualche secondo lo sguardo e lui si allontanò da me. Oltrepassò la siepe e, con la coda dell'occhio, lo vidi scomparire dalla mia vista. Il respiro sembrò tornarmi regolare. Compii qualche passo all'indietro, poggiando la schiena al muro più vicino. Mi portai una mano al petto, stringendo forte la camicia in jeans che indossavo. Il cuore non voleva saperne di calmarsi. Temevo che da un momento all'altro potesse esplodermi dal petto. Mi sentivo frastornato e felice allo stesso momento. La mano che dapprima giaceva sul petto, si sollevò a mezz'aria. Con le dita accarezzai le labbra, dove ancora potevo gustare un po' del suo sapore. Sbattei le palpebre più volte e qualcosa si materializzò nella mia testa. Un'immagine. Sfocata. Un bacio. Un altro. Un abbraccio. Di chi? Chi sei?

Un dolore lancinante mi attraversò le tempie. Mi inginocchiai sul terreno umido della pioggia degli scorsi giorni. Poi il buio mi avvolse completamente.

DimenticaWhere stories live. Discover now