Capitolo tredici.

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Doncaster, 13 Gennaio 2014

"Styles ma ce li porti due muffin?” La chiamata arriva troppo presto per essere il mio tanto amato giorno libero e se non fosse Zayn a parlare dall’altro lato del telefono avrei di sicuro usato le parole più colorite che conosco per rispondere alla sua domanda, invece rimango in silenzio, mugolando appena. “A me va benissimo quello al cioccolato. Louis e tu che vuoi?" Sento il suo respiro pesante al cellulare.
"Che te ne vada a fanculo!" Borbotta lui in tutta risposta. Questa gentilezza mi riporta in mente quando ero costretto a svegliarlo nel bel mezzo della notte e lui odiandomi e prendendomi a parolacce, veniva però ad accucciarsi contro il mio petto, ed improvvisamente ho freddo, perché lui non è qui, perché il suo corpo non è qui a farmi sentire amato.
"Fai il bravo." Lo ammonisce e allo stesso tempo accarezza Zayn. Il dolore che si espande al pensiero del moro che da solo ancora combatte per due. "Cioccolato bianco e glassa?"
"Voglio solo tornare a Londra!" Urla Louis facendo i capricci. Lo vedo arricciare il naso e battere furioso la gamba al suolo, o meglio questo è quello che farebbe il mio Louis, il nuovo lui, quello che ho avuto la fortuna di vedere solo di sfuggita, e che già mi ha distrutto, che starà facendo?
"Perchè dove siete?" domando confuso.
"Respiriamo la stessa aria, riccio" mi spiega Zayn "siamo appena entrati a Doncaster." E mi manca un battito cardiaco.
Nel mio paese, nel nostro paese, Louis non ci viene da anni, ha fatto andare a Londra tutta la sua famiglia, ma nell'ultimo periodo non è mai venuto qui. "Cosa?" Borbotto a corto di fiato e parole. Cosa significherà vederlo magari al supermarket o al pub? Cosa significherà averlo a Doncaster e non poterlo portare al parco? Non potergli semplicemente dire vediamoci al solito posto?
"Dovresti essere più felice amico, ci avrai con te per un mese intero." Il cuore si ferma. Louis a Doncaster per un mese. Dopo la chiamata di George , di quella dannatissima notte, ero corso a Londra con il primo aereo disponibile, per trovare la casa vuota, per sfogare pugni e lacrime contro una porta chiusa che dava fondamento ad ogni mia più grande paura, ad ogni mio più grande rimorso.
Ero arrivato tardi.
E poi non so nemmeno dopo quanto tempo, speso a piangere e ad urlare contro il cielo, era arrivato Zayn, con due occhi talmente gonfi e rossi da trasmettermi ancora più terrore, perché se Zayn stava così doveva essere qualcosa di serio, perché se Zayn stava male c’era qualcosa di cui preoccuparsi. Così senza bisogno di parole si era buttato contro il mio petto, su quel pianerottolo tanto freddo e solitario, e avevamo pianto ancora, insieme, stretti uno nelle braccia dell’altro, come se fosse l’unico modo per non affogare nel nostro dolore, per non annaspare in quel mare nero come il carbone, fatto di vecchi ricordi, di se e di ma, di situazioni che non avremmo potuto, forse, mai più provare, di rimorsi, di se avessi fatto di più, di non posso vivere senza di lui. E continuava a sussurrare ce la farà, e quelle 3 parole percorrevano la mia pelle come gli aghi di un tatuatore, perché ci credevo, perché doveva andare così, perché se lo diceva Zayn era la verità.
Zayn che anche distrutto era lo scoglio a cui aggrapparsi, Zayn che anche da perso rappresentava la guida da seguire, la stella polare che saprà sempre portarti a casa.
La mattina dopo ci eravamo trovati, senza alcun ricordo in testa, nella sua stanza, nella loro stanza, ancora aggrappati al corpo dell’altro, terrorizzati all’idea che potessimo ancora abbandonarci, come avevamo già fatto, come eravamo convinti fosse giusto fare, perché io lo avevo lasciato da solo a combattere contro demoni che io in anni ed anni non ero nemmeno riuscito a conoscere, e lui me l’aveva lasciato fare, perché convinto di poter vincere, perché convinto che l’amore potesse bastare. Ed eravamo ciechi, perché i nostri sentimenti ci stavano distruggendo, perché far finta di dimenticare non è servito, perché combattere da soli non è bastato, perché ci stava crollando tutt’intorno, perché non volevamo accorgercene.
Perché l’uomo non ha ancora capito che non serve a nulla scappare, che non basta girare la testa di fronte ai problemi, perché ti verranno sempre a cercare, e quando ti troveranno, faranno più male di quanto ti aspettassi, di quanto potessi mai credere, perché ti eri lasciato abbindolare dall’idea che lontano da tutto, lontano da tutti, il dolore potesse almeno affievolirsi, ma non funziona così, per questo bisogna lottare, per questo bisogna arrampicarsi a quello che ci rimane e ricominciare, oppure continuare quello che abbiamo sempre fatto, perché arrendersi non è nella natura dell’uomo, perché i vinti non sapranno mai cosa significa vivere sul serio, perché semplicemente alcune cose vanno fatte, altre vanno accettate e per altre bisogna semplicemente combattere.
Ed io me ne stavo accorgendo troppo tardi, e me ne vergogno, perché sono stato sempre a conoscenza della sua battaglia, ma pensavo solo al mio dolore, al mio sentirmi messo da parte, al inutile e stupido egoismo.
Per questo quando notai Zayn fissare il soffitto con lo sguardo perso, i capelli schiacciati e le labbra fatte quasi a sangue, gli accarezzai una guancia e mi alzai per andare in cucina a preparare la colazione. “Ce la farà” avevo sussurrato di spalle vicino alla porta, non avrei sopportato il suo sguardo dritto nei miei occhi, non sarei riuscito a far uscire nemmeno quel fil di voce con cui poi continuai “ce lo deve. Te lo deve.”
Lo sentii piangere a singhiozzi mentre io preparavo la colazione, mentre le mie mani apparecchiavano meccanicamente per tre, perché la presenza di Louis in casa non poteva essere ignorata, era nei colori, nei quadri, nell’accozzaglia di stili, era al mio fianco e non sarei mai stato in grado di far finta di non sentire quella costante sensazione di averlo accanto, anche adesso che non c’era, anche quando non c’era stato.
Zayn mi raggiunse poco dopo in cucina, e mangiammo in silenzio, fin quando mi disse che Louis ogni tanto nel sonno parlava dei nostri sweetdays, lui che di dolci non ne mangiava da un'eternità, e che bramava i miei pancakes. Lo disse con un sorriso dolce e lo sguardo assente, forse aggrappandosi con tutte le forze a quei ricordi che l'avevano spinto ad andare avanti, e allora cadde a me una lacrima, e quella bruciò sulla mia guancia nello stesso istante in cui il cellulare di Zayn inizio a squillare sul davanzale, e poi fu il caos.
Perchè Londra era troppo trafficata, perchè la macchina non andava abbastanza veloce, perchè Zayn era troppo agitato, perchè io volevo assistere ancora una volta al suo risveglio, volevo assistere allo spettacolo dei suoi occhi che si aprivano sul Mondo, delle sue mani che si stropicciavano il viso, della sua voce stranamente più roca che ogni volta dava vita ad un nuovo inizio, perchè semplicemente Louis non rischiava più la vita. E non so dopo quanto tempo accadde, io gli stringevo una mano e Zayn l'altra, Across the Universe fluiva fuori dal cellulare di quest'ultimo e gli occhi che mi pizzicavano talmente tanto da farmi male, ma accadde. E non mi è ancora chiaro il perché ma sentì questo momento fissarsi proprio lì, fra una costola e l’altra, fra una parola detta e una taciuta, fra il cuore e l’anima. Sentì questo momento urlare per sempre.
Perché l'azzurro, il celeste, degli occhi di Louis era ovunque.
Riflesso contro i muri troppo asettici di quell’ospedale, contro le finestre troppo opache per permettere ai raggi di sole di riscaldare quella camera, contro quei macchinari attaccati al suo corpo, che non sembravano più così minacciosi, ma soprattutto era dentro di noi, a scontrarsi contro i nostri organi, contro le ossa che non ce la facevano a far spazio a tutto quel colore, a tutta quella vita, ma alla fine lo sentì entrare ancora più in profondità, sprofondare in ogni vena, occupare ogni posto libero e farsi spazio anche dove non era possibile, perché è questo che fa l’amore: trova un posto anche dove non c’è.
E non ci credo ancora che siano passate due settimane da quell’inferno, non ci credo che mi sia fatto cullare per 17 notti dall’abbraccio che mi diede appena sveglio, del sorriso che fece contro il mio collo, dalle lacrime silenziose che bagnarono il mio maglione, dell’odore di lavanda che perfino lì dentro era riuscito a portare, era riuscito a combattere la morte, ma avrebbe mai imparato davvero a vivere?
Più lo guardavo, più lo vedevo rassicurare Zayn, parlare con i medici, chiamare sua madre e più non riuscivo a reprimere il pensiero che Louis fosse una farfalla.
Perché le farfalle non possono vedersi le ali.
Qualsiasi altro essere vivente sulla faccia della terra può ammirarle e riconoscere la loro straordinaria bellezza, invidiare quelle ali così ricche di colori e sfumature, guardarle volare lontano, così leggiadre e quasi magiche, rimanendo a corto di parole. E Louis fa altrettanto, anche in un momento difficile come quello, ammaliava tutti, donando sorrisi che ti facevano dimenticare tutto quello che c’era intorno, con quegli occhi così lucidi e vivi da sembrare il cielo di Marzo, dopo un brutto temporale.
Ma non riusciva a vederlo, completamente cieco, come se gli avessero strappato gli occhi nonostante quest'ultimi fossero la cosa più vicina alla vita che vedessi da anni. Perché in quei giorni i suoi occhi avevano creato ancora un nuovo tipo d’azzurro, ed era impossibile non perdersi dentro di loro, impossibile non domandarsi come fosse possibile che non riuscisse a vedere tutto quello splendore.
Perché per farsi una cosa del genere, per arrivare quasi a morire, Louis si è fatto sopraffare da quei demoni, dall’essere troppo perfetto, dal voler fare sempre tutto e bene, dal voler essere il primo in tutto, ed in quei giorni mi ritrovai a giustificarlo, a trovare le spiegazioni che mi erano sempre mancate.
Eppure non riesco ancora a credere che non abbia più voluto vedermi, non ci credo che abbia lasciato Zayn ancora da solo a combattere, perché rimanevo a casa loro, a preparargli il pranzo, a lavare la roba, ma in ospedale non potevo più mettere piede, perché non mi voleva più, perché aveva deciso lasciarmi fuori, perché io gliel’avevo permesso, perché adesso accecato dai rimorsi non riuscivo ad andare contro il suo volere, non riuscivo a far altro che accontentarlo, facendo del male a me stesso, ma dando a lui quel controllo che tanto brama da quando era solo un bambino, quel controllo che solo adesso riesco a rileggere in tutti i ricordi che lego a lui.
Eppure non riesco ad accettare che nonostante lo stessi inconsciamente perdonando, non per quello che aveva fatto a me, perché per quello non ha mai avuto nemmeno bisogno di scusarsi, ma per quello che aveva fatto a se stesso, lui mi aveva cacciato fuori dalla sua vita.
Era categorico, non tollerava la mia presenza.
Io non potevo vederlo, io che bramavo quella luce, quella vita, non potevo assistergli, e non riesco nemmeno a prendermela con lui, ne allora ne tantomeno adesso, perché non voglio nemmeno immaginare quello che abbia passato, non voglio nemmeno scoprire tutti i bocconi amari che si è costretto ad ingoiare, non voglio pensare a tutte le notti che avrà passato a piangere chiuso da qualche parte.
Perché il solo sentimento che adesso provo è l’odio verso me stesso, per essere stato così cieco, per non aver cercato di mettermi nei suoi panni, per non aver colto i suoi segnali, perché diamine io lo conoscevo, conoscevo le sue insicurezze, le sue parole ed ogni suo tic, ed avevo ignorato tutto.
Schiavo di me stesso.
Perché colto alla sprovvista da quel distacco così forzato, non mi sono mai impegnato a mantenere la promessa che feci ad entrambi tempo fa, gli promisi che fino alla fine gli avrei fatto capire quanto perfetto lui fosse.
Perché il problema era quello, il problema è quello.
Louis è schiavo di una sofferenza immensa, interna, lacerante. Ma che nessuno vede, perché dall’estero per quanto tu ti possa sforzare non traspare nessun segno.
Cosa può mancare ad un ragazzo come lui?
E’ bello, intelligente, ricco e famoso, ha un fidanzato amorevole, una famiglia che lo sostiene, centinaia di persone che lo idolatrano.
Nessuna mancanza, nessuna malattia.
Eppure è caduto, e allora la colpa è solo sua, perché è lui all’origine del suo male, no? Perché ha voluto più di quanto non avesse già, perché non si è saputo accontentare. Ma se accontentarsi non fosse nella sua natura? Se non fosse stata questioni di scelte, ma solo di prendere l’unico sentiero a disposizione?
Perché combattere per anni contro quei mostri che si ostinava a tenere incatenati, a nascondere agli occhi degli altri, a nutrire solo raramente, ha trasformato lui stesso in un mostro, incatenato dai suoi stessi mali, schernito dai suoi stessi sbagli, deriso da suoi stessi ricordi.
Per questo Louis si è quasi ucciso, non perché non capisse più niente, non perché fosse troppo drogato per capire, ma perché semplicemente in un momento di lucidità si era reso conto di cosa era diventato.
E non l’aveva accettato.
Perchè per un uomo come Louis essere un mostro era peggio di qualsiasi altra cosa, perchè per l'angelo che era nascosto nel fondo del suo cuore era la più grande sconfitta, più immensa perfino della morte.






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