Capitolo 2

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"Allora, com'è la tua nuova camera?" Domanda entusiasta Ariel, al telefono.

Sbuffo, sedendomi sul mio letto, che alla fine ho deciso di posizionare esattamente davanti allo specchio. Guardandomi nel riflesso, noto che l'unica cosa nera e scura che stona con i colori pastello della stanza sono io. E gli scatoloni marroni ancora sparsi in giro. "È... rosa. È rosa, Al!" Esclamo con una smorfia disgustata.

In risposta, sento la risata divertita della mia migliore amica dall'altro capo del telefono. "Sul serio? Ma è proprio tutta rosa?"
Osservo con occhi leggermente sgranati le pareti a striscioline bianche e rosa e la moquette... rosa. È quasi inquietante. "Sì, cazzo, mi sento male! Non vedo l'ora di ridipingerla." Sibilo tirando un calcio all'aria.

"Mhh, nel tuo caso credo sia una buona idea. E dimmi, il resto della casa invece com'è?" Chiede ancora lei. Anche se è un po' più piccola rispetto a dove abitavamo prima, ammetto che è davvero carina, sui toni del bianco, l'arredamento piuttosto moderno. "È bella, non c'è dubbio. Ma già mi manca la mia vecchia casa... e soprattutto mi manchi tu. E il centro."
"Anche tu già mi manchi! A proposito, prima che mi scordi, i ragazzi del centro sociale ti salutano. Cavolo, però quanto vorrei che tu fossi qui ad aiutarmi per gli esami di inizio anno... non ci capisco niente di matematica."

Sospiro, giocherellando con i miei lunghi e mossi capelli scuri. "Saluta i ragazzi da parte mia. E per quanto riguarda matematica... lo sai quanto anche io la odio!" Ridacchio.

Sento la mia amica che sospira pesantemente.

"Giá, anche se cercare di capirci qualcosa con te sarebbe stato più interessante. Beh, adesso devo proprio andare a studiare, altrimenti mia madre mi sgozza. Ti chiamo domani, okay? Ti voglio bene!" "Okay. Ti voglio bene anch'io, Al, a domani." Chiudo la chiamata e lancio il cellulare sul cuscino dietro di me, alzandomi.

Bene, è ora di mettersi al lavoro. Mentre disfo gli scatoloni in ginocchio e tiro fuori i miei vestiti e tutta la mia roba, comprese le mie adorate coperte nere, mi guardo intorno, studiando la camera e cercando di abituarmi all'idea di questa nuova casa. E di questa nuova vita, che per adesso sembra non appartenermi affatto.

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Vago per le strade tristi e quasi completamente deserte di Blumenburg, stretta nel mio giaccone nero.

Passo dopo passo, sono sempre più convinta che mia madre si sia sbagliata riguardo a quel colorificio "in fondo alla via" di cui mi ha parlato stamattina. Non credo che ce ne siano proprio qui, di colorifici. Per adesso ho solo sorpassato una chiesa e... quante saranno state, venti case? Questo dannato quartiere è enorme e sembra non finire mai.

Pensandoci bene, potrei anche chiedere informazioni, se solo ci fosse qualcuno nei dintorni. Capisco che è domenica, ma sembra davvero che regni la morte assoluta, qui: nel giro di dieci minuti ho incontrato soltanto un paio di inquietanti vecchietti, che non appena mi hanno notata mi hanno letteralmente squadrata dalla testa ai piedi, neanche fossi un fantasma.

Ma non è l'unica cosa strana che mi è capitata oggi: mia madre. Oh Dio, lei sì che era davvero strana, stamattina. Non faceva altro che sorridere e parlare e mi ha persino preparato la colazione, come se fossimo una di quelle nauseanti famiglie perfette che fanno vedere nelle pubblicità, ma senza il papá che abbraccia la mamma. Forse crede davvero che questo trasferimento possa migliorare le cose...

Ad un certo punto, arrivata al semaforo, intravedo al di là della strada una piccola vetrina con un'insegna di legno accanto, appesa al muro, che mi strappa dai miei pensieri. Riduco gli occhi a fessura e aspetto impaziente che il semaforo diventi verde per poter correre a vedere di cosa si tratta.

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