XI Gea

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Il treno sferragliava sotto i miei piedi, mentre la voce meccanica annunciava l'imminente arrivo in stazione. Una fermata ancora e saremmo arrivati a Milano.
Il viaggio era andato complessivamente bene, ma Genn era stato molto scostante. Probabilmente si era svegliato con la luna storta e io avevo ormai imparato a lasciarlo stare. Parlargli quando era di quell'umore era controproducente per tutti.
Anche Alessio evitava di disturbarlo, così avevamo passato metà del viaggio a scambiarci canzoni e a condividere le cuffiette. Genn aveva guardato fuori dal finestrino con aria persa per tutto il tempo, portandomi a chiedermi a cosa stesse pensando.
Quando erano passati a prendermi a casa, approfittando per riconsegnarmi la chitarra, avevo provato ad abbracciarlo per ringraziarlo del regalo, ma lui mi aveva appena stretta borbottando: "siamo in ritardo."
Solo poco prima avevo lasciato Alessio e gli altri -avevo scoperto che i loro bodyguard erano simpatici e alla mano se lontani dalla confusione- per andare a sedermi al suo fianco. Lui non si era nemmeno voltato mentre gli chiedevo se andasse tutto bene. "Mi lasci stare?" aveva chiesto in tono scortese quando avevo insistito. Così mi ero alzata ed ero andata a fare un giro nella carrozza bar, uscendone con una lattina di coca cola e un pacchetto di patatine. Era la prima volta che viaggiavo nella prima classe di Italo, ma la differenza non era poi troppa.
Tornai a sedermi di fianco ad Alessio, che mi prese le patatine dalle mani e le aprì, cominciando a mangiarle.
"Hai intenzione di lasciarmene due?"
Lui ne tirò fuori tre dal pacchetto e me le mise in una mano.
"Sono gentile, te ne do una in più del dovuto!"
Gliene tirai una in faccia, piccata. "Adesso decidi anche se posso mangiare le mie patatine?"
"Se la prendi, te le ridó", propose preparandosi a lanciarmene una, che mi colpì il naso e mi finì sulle gambe. Scoppiammo a ridere come due bambini.
"Potete smettere di fare tutto questo rumore?" chiese Genn senza degnarci di uno sguardo.
Quelle parole mi diedero incredibilmente sui nervi.
"Adesso mi spieghi cosa diamine ti prende, Gennaro." Gli ordinai, secca.
"No, lasciami in pace e gioca con Alex."
"Senti, se mi hai fatta venire con voi per tenere il broncio tutto il tempo, posso benissimo prendere il primo treno e tornare indietro non appena saremo a Milano", sbottai.
Lui mi guardó come se gli avessi dato uno schiaffo, poi si girò e tornò a guardare fuori dal finestrino. Mi alzai e mi sedetti di fianco a lui.
"Non puoi comportarti così. Regalarmi quel vestito..."
"Quale vestito?" si intromise Alessio. Lo ignorai.
"E poi fingere che io non esista. Non sono invisibile, Genn. E guardami mentre ti parlo, porca puttana!"
Lui incatenó gli occhi ai miei, sfidandomi, senza dire una parola.
"Ascolta... capisco che tu ce l'abbia con il mondo, adesso. Succede di continuo anche a me, non è un problema", continuai con voce più calma e dolce. "Però io non sono tutto il resto del mondo. Puoi parlarmi di quello che hai in testa, lo sai questo, vero?"
"Non riesci a leggermi nella mente?" chiese con tono cattivo.
"Evidentemente no", replicai, rinunciando alla missione. Ero sicura di non aver fatto nulla di male, eppure sembrava avercela anche con me. Solitamente, il nostro cattivo umore coincideva. Lui era nervoso, io ero nervosa. Evitavamo di parlarci e la situazione si risolveva da sola, portandoci a fare finta di niente.
Parlavamo poco dei motivi per cui eravamo arrabbiati con il mondo. Io ero quella più aperta, che stava zitta all'inizio e poi esplodeva in un lungo sfogo. Non volevo consigli o opinioni, solamente parlare, e lui era bravo ad ascoltare. Genn, invece, non parlava mai di cose personali se non era spronato o costretto. Lui parlava attraverso la musica. Eppure, a volte, aveva bisogno di raccontare a qualcuno quello che gli succedeva e in quei momenti diventavo io l'ascoltratrice. Non entrava mai nei dettagli, diceva frasi sconnesse senza un filo logico, eppure lo capivo.
Odiava questa complicità. Odiava la mia capacità di cogliere ciò che lui nascondeva anche a sé stesso, e allo stesso tempo l'amava perché non aveva bisogno di parole.
Entrambi pensavamo la stessa cosa: essere l'uno nella testa dell'altra era la cosa peggiore che potesse capitarci. Era anche la migliore, ma nessuno dei due lo avrebbe mai ammesso. Era come avere una presenza costante nella mente, che non ci permetteva di mantenere privati i nostri pensieri.
In fondo, però, mi lusingava il fatto di riuscire a comprendere facilmente il misterioso, enigmatico, famoso Genn.
E così come riuscivo ad entrare nella sua testa quasi sempre, così non riuscivo a capire cosa fosse successo quel giorno.
L'idea di essere in direttiva di arrivo a Milano era troppo esaltante per poter essere cancellata dal suo malumore, così feci finta di niente fino a che non ci trovammo nella hall dell'immenso albergo in cui avremmo alloggiato.
Fu allora che scoprii la causa di tutto.
"Avete avvisato Gea del problema con le stanze?" domandò improvvisamente Antonio. Avevo scoperto che quel ragazzo mi stava molto simpatico, ma non avevamo avuto troppo tempo per chiacchierare.
Li guardai tutti con aria interrogativa, mentre Genn borbottó qualcosa di incomprensibile e Alessio si batté una mano in fronte.
"È vero, accidenti! Abbiamo una delle suite, ma quando abbiamo avvisato che Nando non ci sarebbe stato hanno fatto un po' di casino con le camere. In sostanza, avevamo tutti una singola, la sua è stata disdetta e non è stata aggiunta la tua. Quindi qualcuno dovrà stare sul divano in sala."
"Sì, io."
"Ne abbiamo già parlato Gennà", rispose Alessio, esasperato. "Tu ti sei dimenticato di prenotare la suite più grande, tu dormi sul divano."
"Posso stare con Amelia se a lei non... " cominciai, ma Genn mi interruppe.
"Russa, non resisteresti con lei", mi rispose Genn, per poi tornare a rivolgersi ad Alessio con tono lamentoso. "Perché non posso dormire con qualcun altro, me lo spieghi Alè?"
"Perché dividiamo sempre la stanza, e per una volta vogliamo tutti la camera singola. Smetti di fare il coglione adesso."
"Ragazzi, sto io sul divano", dissi entrando in ascensore e schiacciandomi tra Antonio e uno dei bodyguard. "Mi sono aggiunta tardi."
"Ti ha invitata Genn, ci sta lui", ribattè Alessio mentre Genn borbottava: "non ti faccio dormire sul divano."
Rinunciai momentaneamente alla discussione perché ci mettemmo un po' a capire come aprire la suite con la carta magnetica. L'atrio era immenso. Al centro, due grossi divani e due poltrone circondavano un tavolino di vetro, su cui campeggiava una bottiglia di champagne che Alessio si affrettò ad aprire. C'erano fiori e statue d'arte moderna ovunque, e immense vetrate che offrivano una spettacolare vista sul duomo. Ero così presa ad osservare quell'immagine che non mi accorsi che gli altri avevano già scelto le loro stanze. Entrai nell'ultima, quella più vicina alla porta. Un enorme letto campeggiava al centro della camera e l'armadio in lucido legno nero occupava un'intera parete. Una porticina dava sul bagno privato, la cui vasca era grossa quasi quanto il letto. Lentamente tornai sui miei passi nel salotto, dove Genn, imbronciato, era seduto a gambe incrociate sul divano. In quel momento qualcuno bussò alla porta e anche gli altri si riversarono nella sala per prendere le valigie appena arrivate.
"Genn... il letto è enorme."
Calò il silenzio, e mi resi conto di come potesse essere interpretata quella frase. Lui sollevò gli occhi su di me, coperti dai capelli biondi.
Arrossii furiosamente.
"Intendevo che... bè, se non russi e non parli nel sonno non ho problemi a condividerlo. Non devi stare sul divano."
Non sapevo nemmeno perché lo avessi detto, ma non lo avrei lasciato dormire in sala. L'idea mi metteva a disagio, eppure questo non mi aveva impedito di avanzare la proposta.
"Cosa?" chiese lui guardandomi di sottecchi.
Imbarazzata e con gli occhi di almeno cinque persone addosso, sentii le mie guance diventare ancora più rosse.
"Se non vuoi non..." non riuscii a finire la frase che lui aveva già afferrato la valigia, diretto verso la stanza.
Improvvisamente un sorriso comparve sul suo volto, accompagnato dall'annuncio di una gran voglia di pizza.
In quel momento riacquistai la mia capacità di comprenderlo. "Aspetta un momento, Butch."
Lui si fermò come se lo avessi congelato con il tono della mia voce.
"Mi hai ignorata. Mi hai tenuto il broncio. Mi hai sgridata, salutata a malapena, guardato male tutti per tutto il giorno... per un divano?"
Vidi la sua espressione afflosciarsi a rallentatore, mentre tutti gli altri si dileguavano nelle loro stanze.
"Non riesco a dormire sui divani", si difese arretrando. Io avanzai, minacciosa, senza dire niente, fino a che non si scontró con il letto. Gli puntai un dito al petto. "Sul serio, Gennaro? Per un divano?"
"Non mi piace quando mi chiami Gennaro, sembri mia madre. O le mie sorelle quando si arrabbiano", replicò con la massima calma.
"Non ci posso credere..."
"Hei", abbozzó un sorriso. "Non puoi arrabbiarti con me dopo avermi chiesto di dormire insieme."
Feci per rispondere, ma lui mi precedette.
"No, non si fa. Certo che ci hai messo poco a chiedermelo, Gea. Potevi dirlo subito, sai?"
Per un momento non seppi cosa dire. Ero indecisa tra un insulto, un balbettio con tanto di guance rosse, un'uscita di scena epica e un bacio.
Era tremendamente bello, con quell'aria strafottente e i capelli indomabili. Le sue labbra mi sembravano più... no, il bacio no.
Ero decisamente arrabbiata, non poteva trattarmi così per un divano. Gli diedi una forte spinta al petto e lui cadde sul letto come un sacco di patate.
"Sei un coglione, Gennaro."

Strangers  (in the same empty space)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora