V Gea

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La mattina dopo mi svegliai prestissimo. Non ci mettevo mai troppo a prepararmi, ma avrei visto Genn e ci tenevo ad essere presentabile. Alla fine, dopo essermi cambiata diverse volte, uscii di casa con una gonna nera a vita alta e calze dello stesso colore, un maglioncino azzurro e ai piedi gli immancabili anfibi.
Genn mi aveva detto di vederci fuori dal suo hotel; quando arrivai era già fuori e camminava avanti e indietro, le mani in tasca e lo sguardo pensieroso.
"Buongiorno", mi disse invitandomi a salire in macchina. Quella mattina non avrei guidato io, lo avrebbe fatto il suo autista.
"Ad Alex non da fastidio stare da solo?", gli chiesi dopo che ebbe sussurrato nell'orecchio dell'uomo la destinazione prescelta.
Si strinse nelle spalle. "Troverà qualcosa da fare."
Non parlammo molto in macchina, io ero abbastanza nervosa e lui non sembrava più loquace del giorno prima. Quando arrivammo, la sua espressione mutò in uno sguardo deluso.
Aveva scelto di portarmi nella pasticceria più famosa della zona, ma la porta non poteva essere più chiusa di così.
"Daniel mi aveva assicurato che era aperta!", esclamò sprofondando nel sedile.
Soffocai una risata, sembrava un cucciolo disperato.
"Forse non sapeva che erano in ferie... facciamo così, prendiamo un paio di caffè da portare via e facciamo un giro. Ti faccio vedere un posto."
"E io che volevo farti una sorpresa..."
"La prossima volta", mi lasciai sfuggire, anche se non sapevo se lo avrei mai più rivisto.

Mezz'ora dopo, stavamo camminando in silenzio verso l'ingresso del parco. Era estremamente silenzioso quella mattina, gli uccelli sugli alberi sembravano non aver voglia di cantare e i pochi che stavano portando a passeggio i loro cani erano quieti e persi nei loro pensieri.
"Mi hanno detto che è molto bello come parco", mormorò Genn guardando verso il lago, dove una famiglia di papere girava al largo da una tartaruga troppo grande per non essere una minaccia per i pulcini che seguivano allegramente la mamma.
Genn si fermò, appoggiandosi allo steccato di legno che delimitava l'acqua.
"Almeno uno di quegli anatroccoli finirà mangiato dalla tartaruga. Sono cattive, lo sapevi?"
"Sì, l'anno scorso hanno ucciso tutti i pulcini del cigno."
"I pulcini del cigno...", ripeté Genn, pensieroso. "Qual'è il nome esatto?"
Lo guardai, stupita. Era appoggiato alla recinzione e fissava la tartaruga. Non stava facendo assolutamente nulla, eppure non potei fare a meno di pensare che era bellissimo mentre osservava qualcosa.
"Io...non lo so", ammisi. "Non ci avevo mai pensato, non penso abbiano un nome esatto. Sono solo... pulcini".
"Perché? Insomma, ci sono gli anatroccoli, gli aquilotti... perché i cigni piccoli non hanno un nome?"
Per un secondo mi chiesi cosa potesse esserci nel caffè che stringeva tra le mani. Era un discorso troppo assurdo per poter essere serio.
"Organizzeremo una petizione per trovare un nome." Gli sfiorai delicatamente una spalla per farlo voltare; sobbalzai quando i miei occhi incrociarono il blu dei suoi. "Vieni."
Lo guidai verso un punto in cui gli alberi dominavano il parco. Lo chiamavo bosco anche se non lo era, perché era così fitto che in pochi entravano lì. Non sapevano cosa nascondeva all'interno.
"Dove stiamo andando?", chiese Genn, scalvalcando una radice.
"Qui." Mi bloccai di colpo e lui, non accorgendosene, mi venne a sbattere. Trattenni in respiro quando mi accorsi che non si era spostato e la mia schiena era contro il suo petto.
"Non c'è niente qui."
Mi voltai, trovandomi a pochi centimetri dal suo volto. Gli occhi erano ancora più azzurri, visti da lì.
"Devi solo...", con due dita gli sollevai il mento verso l'alto. "Guardare meglio."
La sua espressione mutò completamente quando vide la casetta.
Soffocai una risata mentre lui non accennava a voler abbassare lo sguardo, e mi diressi verso l'albero più grande. Sciolsi il fiocco che sosteneva la scala, e questa cadde lungo il tronco con un leggero fruscio.
Genn si mosse automaticamente verso l'albero e salì per primo, attento a non ribaltare il caffè.
Si fermò in cima, notando il lucchetto. Gli passai la chiave. "Quando ero piccola amavo venire qui. E amavo il libro 'Un ponte per Terabithia'. Ero talmente fissata con quella storia, che convinsi mio padre a costruire questa casetta. Chiedemmo i permessi e ci mettemmo all'opera. Inizialmente era per tutti i bambini che venivano al parco, ci ritrovavamo qui ed era il nostro quartier generale. Con il tempo si dimenticarono di questo posto, e divenne mia soltanto."
Genn mi guardava assorto, come ipnotizzato. "Apri, avanti", lo incitai.
La casetta, costruita per un gruppo di bambini, era grande ma il soffitto non era troppo alto. Io riuscivo a stare in piedi ma Genn dovette curvarsi per entrare.
All'interno, sul pavimento di legno, giacevano una coperta lilla e diversi cuscini azzurro chiaro. Su un minuscolo comodino c'erano libri di ogni tipo e vecchi cd, appoggiati ad un lettore ancora più vecchio. Le lampade alimentate a pile erano spente, e un barattolo pieno di biscotti era appoggiato nell'angolo. L'unica pecca di quel posto era che d'inverno si gelava.
"È... fantastica!"
Genn si voltò verso di me. Sul viso aveva stampato un sorriso, uno di quelli veri che stavo ammirando per la prima volta.
"Sono felice che ti piaccia. Quando sarai in zona... sarà sempre aperta per te", mi lasciai sfuggire.
Passammo un paio di ore lì dentro, lui seduto a gambe incrociate e io stesa a pancia in giù sulla coperta, parlando di letteratura, musica e sogni. I biscotti finirono in fretta nella sua pancia, e il resto del mondo era rimasto fuori.
"Cosa fai qui?", mi chiese Genn, cambiando posizione e stendendosi al mio fianco, con il viso rivolto verso l'alto.
"Sinceramente? Non lo so. Studio lettere. In estate lavoro in un albergo. Ma mi sembra tutto troppo piccolo. Come se questa città non potesse contenere tutto quello che ho dentro. So che può sembrare una cosa egocentrica ma..."
"No", interruppe il mio slancio di sincerità. "So cosa vuoi dire. Volevamo andarcene, Alex ed io. A Londra. Poi è arrivato X Factor e siamo rimasti."
Mi sedetti a guardarlo. Aveva gli occhi chiusi. Sembrava così in sintonia con quello che avevo in testa... "Vuoi ancora partire. Non è così?"
Non rispose.
"Sei come me. I confini che abbiamo sono troppo limitati per noi", sussurrai ancora. "Non siamo fatti per stare in un posto solo."
Riaprí di scatto gli occhi e si sollevò ad una velocità tale che sobbalzai. Mi stava guardando, guardando veramente. Mi sentii trapassare dal suo sguardo.
Restammo in silenzio per diversi secondi, e avrei tanto voluto poter leggere i suoi pensieri. Nei suoi occhi si agitava un mondo intero.
"Sei una scrittrice", disse, piano. "Dimmi che cosa vedi in me. Voi scrittori vedete le cose in modo diverso."
"Anche voi musicisti."
"Dimmi che cosa vedi in me", ripeté.
Aspettai qualche secondo prima di rispondere.
"Inquietudine. Un universo di parole non dette, di paure nascoste." Risposi sussurrando, perché eravamo vicini e non volevo che quella stranissima atmosfera si guastasse.
"Rivedo me stessa", ammisi.
Non riuscii a decifrare la sua espressione. Cambiò all'improvviso, assumendo mille sfumature inspiegabili. Si alzò, sbattendo la testa contro il soffitto di legno.
"Devo andare."
Non dissi nulla, non sarebbe servito. Non si voltò a guardarmi quando si calò giù per la scaletta, e l'ultima cosa che vidi fu la sua schiena che scompariva oltre gli alberi.

Angolo autrice.

State aumentando a vista d'occhio.
GRAZIE!!!

Per quanto possa essere assurda la conversazione sui piccoli di cigno... l'ho veramente avuta con un'amica qualche anno fa. Mi sembrava potesse essere una domanda molto alla Genn.

Un bacio.
-V

Strangers  (in the same empty space)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora